“Il cinema italiano è sempre un po’ in crisi, ma resiste”. Parla Francesca Comencini
La regista, intervenendo dopo la proiezione al Bif&st di Bari di “A cavallo della tigre”, film del diretto dal padre Luigi nel 1961, riflette sulla crisi del cinema italiano, sul successo o insuccesso di un film, e sulla necessità di mettere in scena il paradosso

Francesca Comencini, protagonista di uno degli Incontri di Cinema del Bif&st di Bari 2025, racconta il cinema del padre Luigi partendo da A cavallo della tigre, suo grande insuccesso – sì, avete capito bene! -, datato 1961. In quegli anni in cui il cinema italiano (tanto per cambiare) era in crisi, “quattro autori di livello grandissimo come Age, Scarpelli, Monicelli e Comencini si uniscono per fondare una cooperativa per poter così realizzare i loro film”, dice la regista de Il tempo che ci vuole. “E questo per dire che il cinema italiano è molto resistente. È sempre stato un po’ in crisi ma ha sempre poi resistito. E tutt’oggi è così”.
A cavallo della tigre. Manfredi e Volonté protagonisti di una storia d’evasione
A cavallo della tigre, con protagonisti Nino Manfredi e Gian Maria Volontè, percorre la storia di Giacinto, in carcere per simulazione di reato, che condivide la cella con tre compagni i quali lo coinvolgono nel loro piano di evasione. Nonostante debba scontare una pena di pochi mesi e sia perciò riluttante all’idea della fuga, Giacinto accetta e dopo qualche tempo, vissuto in clandestinità, si rifugia dalla moglie. Il convivente della donna però lo convince a costituirsi, anche se il suo consiglio non è così disinteressato come sembra…
A cavallo della tigre. Storia di un grande insuccesso
“Questo film è il primo che decidono di fare con la cooperativa benché avessero le due sceneggiature pronte – l’altra era “L’armata Brancaleone” di Monicelli, poi realizzata in altro modo nel 1966 -, perché mio padre era reduce da un grandissimo successo commerciale che era “Tutti a casa” (1960), che aveva appena fatto sempre con Age e Scarpelli e con protagonista Alberto Sordi”, commenta Francesca Comencini. A cavallo della tigre è stato però un fallimento totale, un insuccesso totale al punto che la cooperativa è stata chiusa immediatamente. “Questo è interessante. Fa capire molte cose sul cinema di oggi. Il cinema italiano è sempre stato un cinema in difficoltà. Ha prodotto dei grandi film, molto potenti e vivaci, ma sempre con questa logica di difficoltà, di crisi e di riuscirci lo stesso. Il segreto del successo d’altronde non ce l’ha nessuno anzi è proprio il bello del mestiere”, continua. “Vediamo sceneggiatori e registi che hanno grandissimi successi e immediatamente dopo grandissimi insuccessi. E questo accade da sempre”.
A cavallo della tigre contiene nella sua origine un ingrediente molto importante per la riuscita di una sceneggiatura: contiene un paradosso, e cioè contiene il fatto che le cose non sono come sembrano. “Qui c’è uno che partecipa a una sgangherata impresa di evasione anche se in realtà non vuole evadere. Viene costretto a farlo da persone molto violente, brutali”, sottolinea la regista. Nel film sono accentuate le relazioni umane “che sono un po’ di cuore del cinema di mio padre, ma anche degli altri autori, e che si ribaltano completamente. Chi sembrava il più buono diventa il più vigliacco, chi sembrava il più feroce è forse il più leale”.

La fiaba secondo Luigi Comencini
I dialoghi in A cavallo della tigre sono stupendi. Dicono il contrario di quello che ci si aspetta che i personaggi diranno. “Ogni battuta contiene un paradosso e sotto tutto questo c’è un’intensità umana molto grande, proprio dietro questo racconto di spietatezza, crudo”, sempre Francesca Comencini. “Questa è proprio l’idea che mio padre aveva della fiaba. La fiaba era per lui qualcosa di crudele e terribile e non qualcosa di sdolcinato. Anche se, dentro questa durezza, dentro questa capacità di raccontare il mondo dimenticato dal boom economico, di gente che è completamente ai margini di tutto, questa narrazione priva di alcun paternalismo, senza nessuno ‘ecco vi racconto una rivoluzione’, ma con un ‘vi racconto degli esseri umani che sembrano qualcosa e sono qualcos’altro’, ha una complessità infinita. E questa è una grande lezione, veramente grande, che questi autori, non solo mio padre, ci hanno lasciato”.
E riconoscendo che il cinema è un insieme di cose come artigianato, industria, e talvolta, molto raramente, arte, e facendo una riflessione ancora più attenta, precisa e interessante riguardo al successo, Francesca Comencini commenta così: “Il successo al botteghino non è l’unico indicatore del valore di un film. Ci sono molti film e ci sono molte variabili e qualità. Siamo qui oggi, nel 2025, a parlare di un film del 1961 che è un enorme insuccesso: questo dimostra che i film hanno delle loro vite, una delle quali è il successo commerciale ma non è la sola”.
Margherita Bordino
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