La casa degli sguardi. Intervista a Luca Zingaretti che diventa regista
Debutto alla regia per un grande e amato attore italiano con la storia di un figlio che soffre e di un padre che nel frattempo “procede”. Un film di speranza in cui un ruolo cruciale lo ha la poesia

Dolore e poesia, amore e speranza. Sono queste le diverse sfumature della storia che Luca Zingaretti porta sul grande schermo nel suo esordio come autore e regista. La casa degli sguardi, liberamente ispirato dall’omonimo romanzo di Daniele Mencarelli (Mondadori), è al cinema dal 10 aprile con Lucky Red. Un’opera prima coinvolgente, potente. Un film che mette in scena la relazione padre-figlio, la reazione al lutto, l’abuso di alcool e il difficile ma necessario bisogno di ricominciare.
L’intervista all’attore e regista Luca Zingaretti
Mi parli del protagonista. Un giovane alcolizzato, incapace di stare nelle cose ma che ama la poesia.
Marco è un personaggio che ha una enorme e anche sovradimensionata sensibilità. Una parte viene sublimata nella poesia mentre dell’altra non sa bene che farsene. È un ragazzo di 20 anni a cui tutto gli risuona dentro, in maniera eccessiva, e per vivere ha bisogno di anestetizzarsi. E allora che fa? Beve e cerca così quella che nel libro chiama la “dimenticanza”, uno stato in cui ti dimentichi anche di te stesso, che io ho interpretato come un mal di vivere determinato dalla mancata capacità di sopportare il dolore. E tutto questo avviene in una società, quella di oggi, in cui il dolore è continuamente demonizzato.

Il dolore come chiave di lettura de “La casa degli Sguardi”
Secondo lo scrittore Haruki Murakami “il dolore è inevitabile, ma la sofferenza è una scelta”. Che ruolo ha il dolore in questo film?
Il dolore è raccontato nel film come un impedimento anche se in realtà questa è visione del mondo, una visione che ci siamo dati, totalmente sbagliata anche perché il dolore fa parte della vita. Nietzsche diceva che il dolore e la felicità sono come sorelle gemelle. Se non c’è dolore non c’è felicità e se non c’è felicità non c’è dolore. Dal dolore non si scappa. Non si può dire ‘”o voglio vivere ma solo le cose felici”. Il dolore si coniuga in maniera diversa a secondo delle stagioni della vita, e noi, non permettendoci di stare nel dolore, perché ne fuggiamo in continuazione, ci impediamo di dar modo alla catarsi di compiere il suo lavoro. Sentire il dolore, viverlo, col passare del tempo, permette a chiunque di ripulirsi da tutte le scorie. Cosa succede al mio protagonista? Ricomincia a vivere proprio quando capisce che dal dolore non si può sempre fuggire e che anzi, a volte, va accolto e abbracciato.
Di cosa ha veramente paura Marco, lei lo ha capito?
Nel libro si parla di fobia sociale cioè della paura del mondo, degli altri che non ha necessariamente una motivazione. Anche a me capita spesso di volermi allontanare da tutti, di aver voglia di stare per conto mio. Sono momenti che una persona deve concedersi. Altra cosa però riguarda Marco. Lui ha questa fobia sociale che è quasi patologica. Il padre glielo dice. ‘Hai perso la fidanzata, hai perso gli amici, ti sei isolato’. Forse questo ragazzo ha paura di riaffacciarsi al mondo, e quando è costretto a farlo deve fare i conti con i propri limiti, con le aspettative degli altri, con le leggi della cooperativa.
Questa consapevolezza avviene in un luogo doloroso per eccellenza.
Si, tutto ciò prende vita all’interno del centro assoluto del dolore. Dentro un ospedale pediatrico. Cosa c’è di più drammatico? Marco vacilla, pensa che lavorare lì lo ucciderà e invece questa esperienza lo fortifica, lo rimette in piedi. Anche perché alla fin dei conti i limiti servono, servono tanto ai bambini quanto agli adulti. I limiti sono quelle cose che comprimendo la possibilità di scelta, con la capacità di vivere. Quelle cose che ti costringono a cercare nelle soluzioni. A volte penso che se fossimo eterni forse non troveremmo il giusto gusto nel vivere.
Dolore, paura, limiti ma La casa degli sguardi ricorda anche che la poesia è per tutti.
Il mondo è pieno di robe senza senso come questo accostamento tra la sensibilità e la poesia vista come una cosa più femminile che maschile: è una cazzata gigantesca. Anche perché la capacità meravigliosa di sintetizzare storie, vite, emozioni, sentimenti in una frase o poco più è un qualcosa altissima. Non c’entra niente col genere maschile o femminile. A me piace che in un film si possa parlare di poesia. Mi sono informato e non ci sono tanti film che ne parlano, non è un argomento facilmente raccontabile. Io credo che questo film, nel suo piccolissimo, fa un passo in avanti in questo senso, e prova anche ad abbattere uno stereotipo.

Luca Zingaretti regista e interprete ne “La casa degli sguardi”
Del film è regista ma anche interprete. E il suo personaggio è un padre, un uomo che procede. Non fa altro che questo, procedere.
Mi piace questa cosa che dice. Soprattutto sul padre abbiamo lavorato tanto di sceneggiatura, nel libro praticamente non esisteva, era molto presente la madre che noi abbiamo tolto. Ci siamo immaginati un padre che educa il figlio attraverso la testimonianza della propria vita, attraverso l’esempio. È un personaggio che intende dire ‘sono stato anch’io vittima di un lutto, anch’io adesso sono solo, e forse drammaticamente solo perché ho perso la mia compagna, però ogni mattina mi alzo, vado a lavorare, mi prendo cura di te’. E in questo senso sì, è un uomo che procede. La sua vita continua, e così facendo dimostra di esserci. È un uomo semplice, non ha i mezzi per mettere mano al disagio del figlio, non sa come maneggiarlo, però c’è e questa per me è una cosa fondamentale.
Questo padre di mestiere fa il tranviere. Non è un caso, vero?
No, non lo è affatto. Significa che ‘io sto qua, mi potrai trovare qua, e se ti fermi prima o poi passo’. A me piace l’immagine di questi due, padre e figlio, che nella notte su questo tram, come fosse un carro magico, attraversano la città silenziosa, dormiente. Sono due disperati che hanno finalmente hanno trovato la pace.
Dalle anteprime che sono state del film, si direbbe che sta conquistando il pubblico.
Il bello di questo film, che ho scoperto solo iniziando il tour di promozione andando nelle sale, è che ognuno si riconosce in qualcosa, si prende un pezzo della storia e lo rilegge secondo la propria esperienza. C’è chi è rimasto colpito dal comportamento del caposquadra, chi dal rapporto che si crea con i compagni di lavoro, chi persino dalla sigaretta che Marco fuma dopo aver finito di pulire il cesso. E questo perché il lavoro ti identifica, ti gratifica, ti dà dignità.
Margherita Bordino
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