25 volte cattivo. Spike Lee omaggia Michael Jackson
Ancora musica al Lido di Venezia. Dopo il racconto su Enzo Avitabile orchestrato da Jonatham Demme, è il turno di Spike Lee. Che racconta i 25 anni dell’album “Bad” di Michael Jackson. Un ritratto che non ti aspetti.
Se fosse vivo, vedendosi sul 70mm del Palabiennale sorriderebbe felice e timido. Come un uomo venuto da un altro pianeta. Così Spike Lee ritrae Michael Jackson, con un film di due ore denso di musica, danza, ricordi, emozioni. Un tributo, Bad 25, che va oltre l’ammirazione e sconfina nel campo dell’entomologia “estetica”. Il padre del cinema black vuole indagare il processo creativo del re del pop a 25 anni esatti dall’uscita di Bad, album leggendario di cui Lee ripercorre le tracce e i film che lo hanno confermato come un capolavori artistico, proprio a partire da clip di Bad firmato da Martini Scorsese.
All’epoca Jackson è reduce dallo stratosferico successo di Thriller. Con i soldi ricavati da quell’album chiede al suo avvocato di comprare, per 52 milioni di dollari, il catalogo dei Beatles. I suoi colleghi li investono in fondi e in immobili, Michael compra altra musica. Sa quello che vuole, lo ha sempre saputo. Lavora sodo, si attornia dei migliori musicisti. Il suo produttore Quincy Jones è l’uomo dei miracoli. Insieme pensano Bad, per superare il successo di Thriller. Solo un folle o un angelo avrebbero osato tanto.
L’album influenzerà generazioni, portando la black music a un grado di raffinatezza che si rispecchia nel corpo sottile di Jackson. Quel figurino pieno di groove sa parlare una lingua nuova nella danza, una specie di “neotribale” derivante da un mix di popping (la danza della strada) e classica, con Fred Astaire reinventato in cortometraggi come quello della canzone Smooth Criminal. Gli Anni Ottanta sono quelli della Mtv generation e Jackson è abituato fin da piccolo a usare lo schermo per far passare la sua musica. Con i film di Bad, Jacko riscrive la storia della musica in video, ma questo non è il solo aspetto che affascina Lee, il quale monta in due ore (nelle sale uscirà in versione ridotta, cui seguirà in video il director’s cut) la storia che sta dietro un album da record storici (oltre 100milioni di copie, 5 tracce prime in hit parade, tour record per date, incassi e pubblico).
Il film è già stato presentato dalla stampa come un documentario per fan, in realtà è una specie di lectio magistralis che Spike Lee propone per interposta persona a se stesso e a tutti noi: su come lavorava Jackson. Ci si potrebbe aspettare, visto che si tratta di Lee, un accenno alle questioni personali di Jackson, a quel suo voler diventare bianco. Si potrebbe pretendere, e sarebbe legittimo, che Lee girasse una sorta di Citizen Kane, narrando i successi del mito e la solitudine dell’uomo. Forse in un altro film. Qui l’icona viene solo citata e la persona ricordata nel momento più toccante del film (dove il regista, per quanto non “giri” davvero, fa la differenza), quando le decine di persone che lo narrano e ricordano devono affrontare la domanda sulla sua morte improvvisa.
Anche chi non ha particolarmente seguito Jackson non ha potuto fare a meno d’imbattersi nella sua voce da tre ottave e mezzo, o in quei video che erano film. Lee vuole mostrare la grandezza di un genio che non era mai sazio. Vuole vederlo lavorare, vuole carpirne il segreto. Per quanto tutti parlino a cuore aperto, il segreto resta tale. Lo stesso Jackosn dichiara che è “una cosa che viene dal cielo”. Si può credere o meno, resta il fatto che lui ha segnato anche una probabile negro-renaissance, negli stessi anni in cui Basquiat inneggiava all’era dorata del jazz su tele dense di scritte, teschi, pugili e musicisti neri. Jackson lo ha fatto, come già aveva fatto in Thriller con gli zombie, ingentilendo l’orrore della realtà con il suo canto. Anche usando il soul e il jazz per cantare in modo pop la bellezza e l’amore. Vivendo in un mondo più simile a quello di Liz Taylor (sua grande amica) che di Malcolm X, Jakcson sembra aver fatto della sua musica uno strumento di emancipazione, a modo suo, usando Bad come sermone per “abbellire” e forse stimolare un mondo verso il quale deve aver avuto qualche conto in sospeso.
Spike Lee non lo dà a vedere, ma non pesta sull’acceleratore del “fratello nero”, e sinceramente la questione resta aperta. Ma forse è questa la grandezza del progetto: aver fatto un film sulla musica, e sul cinema per musica (i cosiddetti videoclip), usando Michael Jackson come modello. Il regista di Fa la cosa giusta ha avuto accesso agli archivi e presenta qui molto materiale inedito, tra cui aneddoti esilaranti come l’incontro tra Jackson e Prince, nemici giurati, o le foto dei travestimenti usati da Jacko per tentare di scoprire come vive la gente normale (mondo a lui sconosciuto): roba da fare invidia a Cindy Sherman. Insomma, il film fa passare messaggi complessi senza tematizzarli apertamente.
Parafrasando un celebre detto italiano degli anni di piombo, possiamo forse considerare Michael Jackson come un “fratello nero che sbagliava”. Ma Spike Lee sembra perdonarglielo. Lui è un “fratello” che ha sempre rigato diritto, e forse con questo film ha cercato di riportare (e gentilmente rivendicare) Michael Jackosn nel novero dei geni afroamericani, al pari di Alì, Luther King o Malcolm X.
Nicola Davide Angerame
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