Perché Whiplash non è una favola. In risposta a Goffredo Fofi
Il film recentemente premiato agli Oscar è la dimostrazione di come, dietro a un’estetica da success story a stelle e strisce, sia in realtà possibile nascondere una critica, sottile e intelligente, all’ideale capitalista del “push your limits”.
È sempre bello leggere Goffredo Fofi, tanto più quando i suoi scritti svelano zone d’ombra in opere salutate come capolavori. È il caso della critica al film Whiplash, pubblicata il 26 febbraio da Internazionale e intitolata Whiplash è una favola per gonzi di destra. Secondo Fofi, dietro la storia di un giovane batterista di talento e del suo maestro, girata da Damien Chazelle e premiata agli Oscar, si celerebbe la classica success story filocapitalista, caratterizzata dalla “smaniosa logica americana della lotta per diventare qualcuno”, dalla “distinzione mostruosa […] tra winner e losers“.
Di primo acchito Whiplash risponde a questa estetica, e non solo: diverse le analogie, come osserva il critico, con storie di vita militare come Full Metal Jacket o di competizioni sportive come Million Dollar Baby. Inoltre, chiunque abbia studiato musica sa fino a che punto possa rivelarsi competitivo e cameratesco l’ambiente dei conservatori, di quante e quali pressioni siano riversate su tutti quei giovani che vi si avvicinano, coltivando il sogno di divenire musicisti di professione.
Tuttavia, quella del musicista è un’alienazione sui generis, propria al suo stesso mondo, probabilmente accresciuta ma di certo non mutuata dalla cultura del capitale. Tanto quanto il ballerino, il musicista pare costretto da una certa tirannia del tempo a spingere all’infinito, quasi una specie di Sisifo, l’enorme macigno della sua perfettibilità. In nessun’altra forma d’arte, infatti, le leggi del tempo e del ritmo incidono come nello studio e nell’esecuzione di un brano musicale, o di un passo di danza.
Anche per questo, nonostante il maestro Fletcher di Chazelle condivida con il Sergente Hartman di Kubrick un uso deliziosamente creativo dell’insulto e della parolaccia, Whiplash ricorda tutt’altro film rispetto a quelli elencati da Fofi. Si tratta di Together With You, girato nel 2002 dal cinese Chen Kaige, già autore di Addio mia concubina (1993). Le due trame sono abbastanza simili, pur con alcune differenze sostanziali. Xiaochun è un tredicenne dotato di un talento raro per il violino e, pur di farlo studiare a Pechino, il suo poverissimo padre affronta sacrifici e umiliazioni d’ogni sorta – nella dinamica padre-figlio, il ruolo del personaggio ambizioso è giocato dal primo, contrariamente a quanto avviene in Whiplash. Nella capitale Xiaochun troverà un maestro severissimo, che lo metterà in competizione con un’altra allieva, l’ambiziosa Lin Yu, per ottenere un posto in un concorso prestigioso. Il papà di Xiaochun decide di andarsene per non distrarlo dalla sua preparazione, e con l’obiettivo di lavorare duramente per pagare un’ammissione data per certa.
Ecco, Xiaochun farà la scelta opposta a quella di Andrew, mollando sul più bello per amore del padre: per non abbandonarlo e per impedirgli di rinunciare, in nome del successo, alla propria salute e al loro rapporto. Come in Whiplash, il finale è intensissimo. Si alternano due scene, in due unità di spazio distinte ma nella stessa unità temporale, scandita dalle note del Concerto per Violino e Orchestra in Re maggiore di Tchaikovsky: vediamo Lin Yu suonarlo a teatro, davanti alla platea borghese del concorso che doveva essere di Xiaochun; quest’ultimo esegue lo stesso difficilissimo brano davanti al padre, in stazione, fermandolo prima che montasse sul treno. Il film si chiude con la commozione del papà di Xiaochun, lasciando presagire una “guarigione” dalla smania di successo che l’aveva consumato sino a quel momento.
Immagino che il film di Chen Kaige possa incarnare quella failure story che il critico sembra vagheggiare in opposizione a Whiplash: la morale poetica e anticapitalista del “ritorno all’umano” contro quella, puritana e alienante, del “push your limits”. La mia impressione però è che Together with you e Whiplash corrano nella stessa direzione. Non mi sembra, difatti, che la “bilancia ideologica” del film di Chazelle penda tanto verso l’esaltazione della vittoria di Andrew, quanto in realtà verso la condanna del prezzo, altissimo, pagato da quest’ultimo per conseguirla. Andrew sceglie di sottostare a prove psicofisiche insostenibili, volutamente sacrificando rapporti umani e legami familiari (non opporrà alcuna reazione, per esempio, agli insulti gratuiti che Fletcher serberà al padre) per guadagnarsi infine la stima di un uomo che, sino a un attimo prima, aveva cercato in tutti i modi di umiliarlo e distruggerlo.
In Whiplash non c’è lieto fine, né quella morale della competizione che tanto piace ai “gonzi di destra”. Il finale vale tutto il film non solo per gli incalzanti ribaltamenti di scena che si susseguono, o per il saggio di virtuosismo di Andrew su Caravan, ma per il senso di straniamento che mira a suscitare nello spettatore. Dapprima sollevato per l’apparente riconciliazione tra Andrew e Fletcher, poi inorridito per la trappola tesagli da quest’ultimo, infine esaltato dal coup de théâtre del giovane batterista, lo spettatore non fa a tempo ad abbandonare la sala, che al sapore frizzante della rivincita segue il retrogusto amarognolo del dubbio: per cosa diamine sto gioendo? I sacrifici del protagonista non sono mai sublimati, come è abitudine nelle success story. Se la critica all’ambizione disumanizzante era esplicita in Together With You, in Whiplash si fa più sottile.
Questo film ha il grande pregio di ribaltare criticamente gli stessi malsani meccanismi paventati da Fofi: da armi utili alla retorica winner-loser e push your limits, Whiplash ne fa degli strumenti critici, dimostrando come, dietro un’estetica da success story, sia in realtà possibile occultare un’etica anticapitalista.
Vittorio Parisi
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