Pierre Boulez compie 90 anni. Omaggio a un paladino della libertà
Oggi, 26 marzo 2015, uno dei massimi compositori, saggisti e direttori d’orchestra del Novecento, Pierre Boulez, compie novant’anni. Un ritratto del nostro specialista, Giuseppe Pennisi. Per un campione della libertà che non ha eguali.
Pierre Boulez (Montbrison, 1925), oggi 90enne, ha una personalità al tempo stesso enigmatica, densa e gioviale. Non lo vedo da alcuni anni, da quando diresse il trittico di Schönberg, Stravinsky e De Falla al minuscolo ma perfetto Jeu de Paume di Aix-en-Provence, mentre gli intérmittants – i lavoratori dello spettacolo e della cultura – protestavano per la riduzione delle loro indennità di disoccupazione tra un ingaggio e l’altro. Le proteste, che comportarono la sospensione del festival per quell’anno, erano tali da minacciare la rappresentazione.
Boulez (non certo definibile come un intellettuale di destra) restò imperturbabile e continuò a dirigere anche dopo l’irruzione dei manifestanti nella sala. La precisione, la fermezza e il sentimento con cui diresse Pierrot Lunaire di Schönberg (con Anja Silja come protagonista) bloccò, quasi per incantesimo, i dimostranti e fece sì che lo spettacolo continuasse sino alla fine. I suoi tempi erano serrati (noto il Ring del 1976 a Bayreuth, complessivamente più breve di venti minuti di quello di Karajan), il suo gesto imperioso, il suo senso della teatralità è raramente stato eguagliato. Il giorno dopo, in un bistrot, ne conversava e sorrideva: il potere della musica mostra ancora i propri denti.
Gli scaffali delle biblioteche sono pieni di libri sulla sua vita e sulle sue opere. Tentiamo di sintetizzare il suo apporto. Iniziò, come molti suoi coetanei, a comporre secondo uno stile seriale dodecafonico post-weberniano. Con il provocatorio slogan “Schönberg est mort!”, assieme al tedesco Karlheinz Stockhausen e al belga Henri Poussen, operò il radicale tentativo di serializzare ogni fattore costitutivo della composizione, non solo le altezze, ma anche durate, dinamiche, timbri, modi di attacco ecc., portando alle estreme conseguenze la dodecafonia. Tuttavia – ed è questo, a mio avviso, un suo contributo essenziale – non restò ancorato a quella che divenne la Scuola di Darmstadt, una scuola fortemente ideologizzata.
Nel corso degli Anni Sessanta ricoprì un importantissimo ruolo nel ripensamento del linguaggio musicale, in parte recedendo dal rigorismo giovanile e in parte mantenendo la nitidezza formale tipicamente francese, in direzione di un’astrazione e una sperimentazione sempre maggiori. La frequentazione con John Cage lo portò verso l’improvvisazione e l’alea. La riscoperta della purezza ii Claude Debussy verso tavolozze timbriche sempre più raffinate. Il crescente interesse per le nuove tecnologie lo indusse a riscrivere per live electronics alcune sue composizioni. Da allora, l’abitudine di revisionare i propri lavori, utilizzando conquiste sempre nuove della tecnologia, diventò una prassi per Boulez.
Nel 1970, con il supporto del presidente Georges Pompidou, fonda l’IRCAM, un istituto per la ricerca e lo sviluppo della musica contemporanea. Oltre a essere il direttore dell’istituto, in parallelo aveva presso il prestigiosissimo Collége de France la cattedra di Invention, technique et langage en musique. L’IRCAM non fu e non è, come scrivono alcuni, il contrapposto di Darmstadt, ma ne ruppe il monopolio, anche ideologico.
Una volta abbattute tutte le pregiudiziali ideologiche che hanno rappresentato al tempo stesso uno stimolo e un limite per i compositori sino all’inizio degli Anni Ottanta, ora i musicisti vivono un momento di invidiabile libertà stilistica. Questo porta a una grande varietà di approcci: dal linguaggio tonale al serialismo, tutti gli stili sono rappresentati nelle partiture arrivate. Le più interessanti sono quelle che abbandonano ogni rigidità per far confluire in una lingua musicale nuova tutte quelle tendenze che hanno animato il passato recente. È un processo molto complesso, l’ideologia è sempre la strada più facile, ma sembra che lentamente ci stiamo spostando verso approcci più meditati.
Se ormai è accettato che la verità è riscontrabile solo nella molteplicità, unicamente tenendo conto della complessità si può trovare una strada che rappresenti la società odierna. Allora anche i compositori, devono misurarsi con la molteplicità dei linguaggi. “Ogni tanto”, ha scritto il compositore italiano Marcello Filotei, “nella storia della musica succede che qualcuno decida di essere il portatore dell’unica istanza creativa legittima. Questo atteggiamento non ha quasi mai portato a nulla di buono. Di solito il mosaico di questi periodi vede fazioni contrapposte: da una parte i nostalgici dei bei tempi andati, dall’altra i fautori del moderno a oltranza. In effetti, le due posizioni sono i due lati della stessa medaglia, perché in entrambi i casi ci si rifiuta di analizzare la realtà e di trarre, dalla fusione tra un passato da interpretare e un futuro da costruire, un linguaggio che rappresenti realmente lo spirito del tempo presente”. È ciò che ha fatto Pierre Boulez. Rendendoci tutti più liberi.
Giuseppe Pennisi
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