Reinhold Friedl: Inside Piano
È il primo pianoforte elettrico della storia e si chiama Neo-Bechstein. Per tutti, o quasi, è considerato poco più che un pezzo da collezione, da ospitare in qualche museo. Ma Reinhold Friedl non la pensa così, e gli ha dato nuova vita.
UN PIANOFORTE DA MUSEO
Il Neo-Bechstein è considerato il primo pianoforte elettrico della storia. Ideato e costruito tra il 1929 e il 1930 dalla C. Bechstein Pianofortefabrik in collaborazione con la Siemens e la Telefunken (i suoi genitori sono il fisico Walther Nerst e l’assistente Hans Driescher), è un pianoforte a coda munito di diciotto pick-up elettromagnetici.
Meno celebre del suo lontano cugino Fender Rhodes, ovviamente surclassato dalla miriade di strumenti elettronici che sarebbero stati progettati negli anni successivi, il Neo-Bechstein è oggi poco più che un pezzo da collezione, ospitato in qualche museo e ritenuto un reperto per organologi.
MUSICA IN POTENZA
Non però agli occhi di Reinhold Friedl, compositore, pianista, saggista e direttore artistico del collettivo Zeitkratzer, che all’ingombrante generatore di suoni ha dedicato la sua ultima uscita discografica (Golden Quinces, Earthed, for spatialised Neo-Bechstein) e non pochi sforzi creativi. Friedl è il teorico di una tecnica, chiaramente debitrice di John Cage, che potremmo chiamare, servendoci del titolo di un doppio cd uscito qualche anno fa, “Inside Piano” (proprio come la serie di documentari dedicati a Renzo Piano).
Con lo sguardo del radiografo, questo austero musicista tedesco esplora le regioni più profonde di uno oggetto che conosce alla perfezione. Per Friedl il pianoforte non è solo lo strumento che la storia della musica classica ci ha consegnato con un suono connotato e un bagaglio di tecniche altamente codificato. Il piano di Friedl, i suoi organi, diventano una infinità di strumenti in potenza, e musica in potenza è quella realizzata grazie alla sua maestria tecnica.
LA STASI E IL SUONO
Se con Zeitkratzer l’atteggiamento si spinge ai confini dell’iconoclastia pura – un’attitudine che lo porta a reinterpretare “classici” di Whitehouse/William Bennett, Lou Reed (ovviamente Metal Machine Music) e Merzbow al fianco di Schönberg, Stockhausen e Cage – quando è solo davanti al suo piano Friedl sembra piuttosto uno scienziato. I suoni diventano “pendeloques de glace” e “ombres d’ombres”, quasi-cose o semplici stati percettivi.
Venendo a mancare qualsiasi dinamica figura-sfondo, si resta immersi in una foschia che, sebbene sia il frutto di un preciso intento di rendere tridimensionale un oggetto piano (fuor di metafora: di spazializzare un suono che è in origine mono), immerge l’ascoltatore in uno stato di stasi quasi totale. Anche solo per questo, un’esperienza da provare.
Vincenzo Santarcangelo
www.reinhold-friedl.com
www.zeitkratzer.de
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #24
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