Anohni. Voce unica, senza speranza
La sua apparizione in Italia è un evento unico. Dopo aver cambiato sesso e nome, Anohni (già voce degli Antony and the Johnsons) approda al Flowers Festival di Collegno in un concept concert che non lascia spazio alla speranza. Proponendo una svolta elettronica che aggiorna la canzone d'autore e di protesta al terzo millennio.
UN CONCERTO MEMORABILE
Anohni sembra snocciolare i brani del suo ultimo, recentissimo, album, intitolato Hopelessness, come le perle di un rosario. L’ex cantante degli Antony and the Johnsons, – dopo aver cambiato nome e sesso (all’anagrafe è Antony Hegarty) ed essersi imposta all’attenzione internazionale ricevendo quest’anno la nomination all’Academy Award per il brano Manta Rey, cui ha fatto seguito la scelta di boicottare la cerimonia di premiazione a fronte del mancato invito a esibirsi – giunge sul palco della sua unica data italiana vestita di nero, incappucciata e velata, perfino guantata. Ricorda un mistico, una suora o un lebbroso, ma canta e si muove quasi come fosse una medusa. Nel suo mantra fatto di inni alla colpa, le urla di dolore e di denuncia seguono i ritmi concitati e ossessivi di suoni elettronici divenuti stridenti e aggressivi fino al rumore. A produrli, Anohni ha chiamato Oneohtrix Point Never e Hudson Mohawke, dj e producer che sostituiscono ogni possibile musicista.
Se Antony Hegarty, prigioniero nel corpo di un uomo, aveva convinto il mondo della musica pop colta che i miracoli potevano ancora esistere (almeno dopo Björk e malgrado la desertificazione operata da stuoli di pop star), Anohni sembra l’alter ego di Antony di ritorno dall’Ade e sul palco appare come una virago furente, in grado di fustigare con scudisci di serpenti noi tutti, e se stessa in primis, colpevoli di ogni misfatto, di ogni morte, di ogni spoliazione. La biosfera, la Palestina, la guerra in Iraq, perfino Obama, diventano il centro del suo nuovo poetare e di un album che appare un’ibridazione tra techno e pop, tra canzone di protesta e clubbing culture.
DAL CORPO ALLA MUSICA
Anohni, che aveva già disertato la serata degli Oscar malgrado la sua nomination, si cela, decisa a non esporre quel suo nuovo corpo che invece intende usare come una lente per la lettura delle sorti del mondo. Nelle interviste centellinate spiega come l’album voglia essere un “cavallo di Troia”, capace di portare nelle orecchie degli svagati fruitori dell’elettronica i messaggi forti di una canzone impegnata. Ne risulta un organismo musicale geneticamente modificato, che porta a deflagrazione il senso mutante del ritratto sdoppiato di Anohni, presente sulla copertina dell’album.
LA FORZA DELL’IMMAGINE
Sul palco questa frammentazione e proliferazione avvengono attraverso un’operazione di videoarte che include due decine di donne e transgender, tra cui Naomi Campbell e Shirin Neshat. La prima apre il concerto con quindici minuti di danza immobile, movimenti rallentati su una base fatta di rumore ascendente che aliena la figura della celebre modella fino a renderla una maschera grottesca. Miglior sorte spetta all’artistar iraniana, la quale inaugura la carrellata di primi piani proiettati sul grande schermo che fa da fondale. Canteranno l’intero concerto in un playback rovesciato. Anohni presta loro la voce mentre loro le prestano il volto. Uno scambio sinergico dal quale appare evidente il desiderio di comunicare oltre la musica, e perfino oltre la voce incantata di questa sirena del terzo millennio, usando l’immagine artistica in chiave drammatica e teatrale. Mentre il corpo dell’artista scompare (spiazzando il pubblico), la voce, che è rimasta la stessa di quella di Antony, cerca di entrare nella bocca muta delle presenze in video, spesso piangenti. Dopo Björk e Lady Gaga, anche Anohni si affida alla forza dell’immagine per andare oltre una voce che sembra non possedere metri di paragone, unica nel suo trans-genere e apparentemente senza sesso né età.
Nicola Davide Angerame
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