In ricordo di Leonard Cohen, cantautore e poeta del buio
Amore e morte, sesso e religione (ebraismo e buddismo in primis): tutto l’universo poetico e musicale del cantautore e scrittore canadese Leonard Cohen, appena scomparso, ruotava intorno a questi grandi temi. Come anche nell’ultimo album in cui ha previsto la propria dipartita, al pari di David Bowie.
Come in Blackstar di David Bowie anche Leonard Cohen, scomparso il 7 novembre a Los Angeles all’età di 82 anni (ma annunciato sul suo profilo Facebook solo nella notte dell’11 novembre), aveva previsto la propria morte nel suo nuovo album, You Want It Darker, uscito il 21 ottobre scorso: “Sto lasciando il tavolo / sono fuori dal gioco”, recitava nel brano Leaving The Table, con la sua voce bassa, calda e tagliente come un rasoio. Mentre, solo qualche mese prima, scriveva nella sua ultima lettera alla sua musa ed ex compagna Marianne Ihlen (a lei si ispirò nelle sue canzoni più famose So Long Marianne e Bird on a wire), prima che morisse lo scorso 29 luglio, all’età di 81 anni: “Sai che ti sono così vicino che se allungassi la mano, potresti toccare la mia. Penso che ti seguirò molto presto”. E ancora, nel brano da cui prenderà il nome uno dei gruppi più “scuri” della storia del rock, i britannici The Sisters Of Mercy, che sembra una ninna nanna di ispirazione religiosa, ma in realtà ha per protagoniste delle prostitute: “Sì tu che devi abbandonare tutte le cose che non riesci più a tenere sotto controllo/ Dapprima toccherà alla famiglia quindi verrà la volta dell’anima”.
Amore e morte, sesso e religione (ebraismo e buddismo in primis) sono da sempre indissolubilmente intrecciati in tutta la sua corposa produzione musicale (quattordici gli album in studio dal 1967 a oggi, con un’interruzione negli Anni Novanta passati in un ritiro buddista in California) e nei suoi racconti e poesie, come solo è in grado di fare chi sa osservare la vita con acuto disinganno, nonostante o grazie la depressione: “Serietà, piuttosto che la depressione è, credo, la caratteristica del mio lavoro“, ha detto una volta in un’intervista al New Yorker.
Questo poeta, romanziere e cantautore canadese ha influenzato innumerevoli personaggi del rock, da Nick Cave all’ex leader degli Smiths Morrissey, che ne hanno colto la vena più dark e umbratile, ma anche lo humor nero e lo spirito fortemente autoironico riflesso nei suoi testi.
Nato nel 1934 alla periferia di Montréal in una famiglia medio borghese di origini ebraiche, Cohen arrivò tardi alla musica, intorno ai trent’anni, dopo la pubblicazione di diversi romanzi e raccolte di poesie, come la seconda, The spice box of earth, che divenne un successo internazionale, e il romanzo Beautiful Losers, che nel 1966 ottenne grande successo di critica: l’ultimo della sua scrittura, prima di uscire da Hydra (l’isola greca dove conobbe Marianne) per trasferirsi negli Stati Uniti. Fu la cantautrice folk Judy Collins a convincerlo a scrivere canzoni e a esibirsi dal vivo e fu lei a voler interpretare una delle sue prime composizioni: Suzanne, che divenne subito un grande successo radiofonico ed è ancora oggi uno dei pezzi più noti del repertorio di Cohen (anche nella versione in italiano di Fabrizio de Andrè), insieme ad Hallelujah, conosciuto al mondo intero grazie alla magistrale interpretazione di Jeff Buckley.
Quel brano gli aprì le porte dei grandi raduni rock, come il festival dell’isola di Wight, nel 1970, in cui suonò Suzanne con la sua chitarra di fronte a 600mila spettatori, nonostante la sua paura paralizzante di esibirsi dal vivo. Recentemente Cohen era intervenuto sulla questione del Nobel assegnato al suo amico e accanito fan Bob Dylan, e sul fatto che molti avrebbero preferito venisse assegnato a lui ha risposto causticamente: “È come se avessero dato all’Everest il premio per la montagna più alta”.
Claudia Giraud
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