Lo hanno fatto per amore, per rispetto, per un senso di protezione e insieme di giustizia. La giusta memoria, la giusta attenzione, preservando quel che è stato più di una semplice cornice, più di un luogo qualunque. La casa di Nina Simone – leggenda del jazz e del soul, icona dei diritti civili, in trincea contro il razzismo e a sostegno delle donne – è oggi al riparo. Certamente una casa più fortunata di quelle che accolsero W.E.B. Du Bois in Massachusetts o Malcolm X in Nebraska, oggi smantellate: sono tante, come racconta il New York Times, le dimore dimenticate di attivisti umanitari e personaggi simbolo della cultura afroamericana. L’idea di farne dei piccoli musei, degli archivi, delle mete per studiosi e appassionati, non è frequente fra le istituzioni. E allora, stavolta, ci hanno pensato gli artisti.
Sono il concettuale Adam Pendleton, lo scultore Rashid Johnson, la regista Ellen Gallagher e la pittrice Julie Mehretu – tutti afroamericani – ad aver messo mano al portafoglio: 95mila dollari per acquistare il trilocale in cui nacque e visse Nina Simone (scomparsa in Francia nel 2003), al 30 East di Livingston Street, tra le alture di Tryon, cittadina della Carolina del Nord. Cifra sufficiente a strapparlo ai compratori e sottrarlo a un destino di oblio, magari di sparizione.
FRA ARTE E POLITICA
“Il mio desiderio”, ha spiegato Johnson, “quando ho saputo che questa casa esisteva, era solo un’urgenza incredibile di assicurarmi che non fosse spazzata via”. Destinazione d’uso? Incerta, tanto quanto è certa la voglia di attivarla, di farne un piccolo tempio, un progetto, un simbolo, uno spazio del ricordo e della testimonianza. Gesto che i quattro definiscono in termini artistici, ma anche politici. A voler proseguire l’impegno di chi, nelle lotte aspre di oggi e di ieri, si è esposto in prima persona.
Come Nina Simone, voce robusta e suadente, anima forte e tormentata, una vita segnata dalla violenza degli uomini, dagli abbandoni, dall’esilio per scelta, dalla tossicodipendenza e infine dalla malattia mentale. Di lei restano uno straordinario repertorio interpretativo, tra i più intensi della storia del jazz, le coraggiose battaglie civili, e questa casa, oggi spoglia, vuota, coperta di foglie e di polvere, traccia malinconica di un’assenza che pesa. Umanamente, artisticamente.
E il destino migliore, per la piccola dimora, resta proprio nel perimetro dell’arte: che possa divenire, nell’idea e nell’impegno dei nuovi proprietari, un’opera d’arte processuale, un contenitore stabile, un dispositivo per l’azione e la riflessione comune, fra estetica e politica.
– Helga Marsala
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati