Intervista a Keiji Haino. Lo stregone della musica elettronica
Continua la serie di concerti elettronici nelle chiese berlinesi per rompere la tradizione del clubbing. Lo scorso maggio è andato in scena per la prima volta in Germania il trio formato da Keiji Haino, Merzbow e Balázs Pandi. Ecco il report e una chiacchierata con il chitarrista-stregone giapponese Haino.
“Come on baby, light my fire”, con una voce rauca e in maniera estemporanea Keiji Haino – chitarrista e cantautore giapponese legato alla musica sperimentale fatta di rock, noise e drone music – ci lascia intonando uno dei pezzi più iconici dei Doors, prima di raggiungere l’aeroporto, dopo la performance alla St. Elisabeth-Kirche della sera prima, insieme a Merzbow e Balázs Pandi. Il quarto appuntamento della rassegna curata da Manuela Benetton nelle chiese berlinesi e la preview internazionale del Festival Saturnalia – che si è svolto il 16 e 17 giugno a Macao, a Milano, fra le attività di Tavolo Suono – è stata un’esperienza incredibile, unica, non solo per la formazione sul palco, ma per la dimensione catartica inaugurata da questa estrema esplorazione sonora, alla luce del giorno.
“La rarità della proposta culturale è l’elemento distintivo dei concerti che organizzo” – sottolinea la co-curatrice Manuela Benetton. “Gli artisti che seleziono fanno spesso parte di un’avanguardia, si presentano in formazioni nuove per la città in cui vengono invitati o vi ci suonano poche volte all’anno. La scelta dei luoghi prevede un abbattimento delle barriere tra pubblico e performer, o comunque la rottura di un codice comportamentale predeterminato. Un evento, per trasformarsi in un’esperienza, deve essere indimenticabile”.
Alla St. Elisabeth-Kirche, dove un anno prima, avevamo preso parte all’improvvisazione dei Marginal Consort, l’atmosfera è cambiata. Non più l’aura eterea che filtrava dall’abside, ma un rosso intenso e violento che sprigionava una carica emotiva incontenibile.
“L’ambiente è una variabile essenziale” – riprende Benetton – “scegliere una Chiesa piuttosto che un club per una proposta musicale d’avanguardia significa calare i musicisti in un contesto e in uno spirito che rompono sia con la tradizione religiosa sia con la ‘religiosità’ del clubbing”.
Il pubblico, non più liberamente distribuito all’interno dello spazio, mollemente disteso a terra o curioso in mezzo ai tavoli, dove avevano luogo gli assoli del collettivo giapponese, è questa volta addossato al palco alla ricerca di un contatto molto più fisico. L’aspetto è quello del concerto, perché il trio agisce e reagisce come una band, ma sarebbe un errore interpretarlo in questo modo. Prima di tutto per il virtuosismo di Haino, che sul palco si comporta come uno stregone, interagendo con gli strumenti elettronici e con la chitarra come se fosse pervaso da un’energia sconosciuta, abbandonandosi a vocalizzi sincopati e lanciandosi al suolo in movimenti tarantolati.
LE PAROLE DI HAINO
Proprio lui afferma: “Ho un approccio fortemente individualista all’espressività. Il mio processo creativo non può essere etichettato a priori. Jazz, noise, blues sono concetti descrittivi ma non traducono il mio rapporto con questa forma d’arte. Io voglio portare un nuovo verbo”. La performance intesa come comunicazione è l’essenza del suo discorso. Keiji Haino, una figura sfuggente e inquieta, nascosta dietro a iconici Ray-Ban neri, riesce a passare da un’immobilità statuaria a scatti frenetici e gesticolanti, quando cerca di spiegare che “è necessario oltrepassare l’apparenza”, se si ama davvero la musica. Da sempre affascinato da Antonin Artaud, sostiene di voler creare una sorta di “improvisational sound theatre” e volersi relazionare come uno “storyteller”, perché la musica ha una componente narrativa, ma non in senso tradizionale. “Non vorrei che questa parola venisse fraintesa” – riprende – “non ho intenzione di raccontare storie. Mi considero come uno stregone, un profeta, un oracolo, un danzatore, che sul palco mette in atto dei rituali. L’obiettivo è comunicare, attraverso diversi canali: la voce, la chitarra, il corpo, gli strumenti elettronici. La performance è una forma di comunicazione che nasce dal processare degli stimoli che provengono dall’interno, dall’esterno e da lontano. È il raggiungimento di quello che definisco “the deepest point of now”. Un’affermazione che funziona da disvelamento, restituendoci l’immediatezza di quel corpo che esplode in movimenti repentini e teatrali. Interrompere la continuità temporale e spaziale, facendo transitare, anzi letteralmente, “spingendo nel presente” memorie provenienti da altre epoche e contesti, è il suo pensiero che si fa azione.
“Ho iniziato il live rievocando schegge di un passato antico, e ho proseguito richiamando la musica hardcore di vent’anni prima. Il corpo dell’improvvisazione è un contenitore che viene riempito da un potere e da un’energia debordanti. La manifestazione esteriore di ciò che accade spesso viene etichettata come violenza, ma si tratta di una proiezione, perché chi assiste è estraneo alla rapidità con cui io raggiungo questo stato profondo del presente”.
UNA PERFORMANCE MEMORABILE
Haino costituisce, all’interno del trio, un elemento destabilizzante, pur mantenendo una posizione di regia, ma “non si tratta di agire in maniera egoistica o dittatoriale, l’attenzione è sempre rivolta a cosa stanno facendo gli altri. Ognuno procede in libertà ma bisogna riconoscere il momento giusto per introdurre un elemento di novità o per lasciare spazio agli assoli di ogni componente”. La performance ha pochi istanti di silenzio, il flusso è fragoroso, la sua evoluzione procede per variazione, addizione, isolamento. La batteria di Pandi, ma soprattutto i suoni elettronici disseminati in spesse matasse di rumore, sono un appiglio intrigante per l’orecchio. Lo cogliamo chiudendo gli occhi e abbandonandoci al dondolio metal del corpo del pubblico. Ogni risveglio è uno spiraglio, attraverso cui ammirare la compostezza e l’eleganza dark di Merzbow, affascinante contrappunto visivo alla carica sovversiva e istrionica di Haino. “L’orientalismo della cultura giapponese è facile da vedere” – riprende –, “ma bisogna imparare a misurare la distanza”, tra l’apparenza, l’affinità e la ricerca della profondità. Nell’immenso vociare riverberante dell’albergo, una tazzina si frantuma al suolo. Acuto è il suono che incornicia l’intervista. La direzione del nostro “deepest point of now”.
– Carlotta Petracci
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