Il vero e il bello della musica. La storia di Luigi Dallapiccola
Suono, colori, luci e corpi si mescolano nella poetica di Luigi Dallapiccola, compositore novecentesco formatosi sull’esempio della musica dodecafonica di Arnold Schönberg. E protagonista del volume realizzato da Mario Ruffini, che ne ripercorre il legame con le arti figurative.
Se si osserva attentamente uno dei capolavori dell’arte figurativa italiana del primo Novecento – Gli amici nell’atelier di Guido Peyron (1928) – si viene colpiti da una figura d’uomo che sembra ammirarsi in un piccolo specchio, mentre tutti gli altri personaggi sono assorti ad ascoltare il barone Odoardo Zappulli van Oldenbarnevelt che si esibisce al violoncello. A ben vedere, però, quello specchio è una partitura, un quadernetto piuttosto stropicciato, grazie al quale il giovane può dare indicazioni al barone circa la sua esecuzione. E il giovane è Luigi Dallapiccola (1904-1975): un compositore che è riuscito nel miracolo di far diventare la partitura uno specchio, una lastra di vetro in grado di riflettere non solo la sua immagine, e l’immagine di tutte le note, ma la luce dell’intero universo.
Ma andiamo con ordine. Nel 1938, all’età di trentaquattro anni, Luigi Dallapiccola ascolta a Londra Das Augenlicht, brano per coro misto e orchestra composto tre anni prima da Anton Webern su testo di Hildegard Jone. È la pittrice e poetessa che avrebbe in seguito scritto le parole per la I Cantata per soprano coro e orchestra e per la II Cantata per soprano, basso, coro e orchestra, l’ultimo lavoro del maestro viennese. Per il compositore istriano è una folgorazione, la seconda dopo quella decisiva del 1924: a vent’anni, dopo aver visto Arnold Schönberg dirigere il suo Pierrot Lunaire a Firenze, decide di avviarsi lungo l’arduo percorso della musica dodecafonica. Quanto a Das Augenlicht, Dallapiccola annoterà in un appunto che il coro – in un’opera che, sin dal titolo, fa riferimento al mistero della visione – ha il compito di fare all’orchestra una domanda precisa: che cosa avviene quando l’occhio si illumina, quando percepisce la luce, i colori? La risposta arriva da un breve frammento strumentale: l’occhio “deve rivelare cose meravigliose – che l’intimo di un uomo si fece cielo – con altrettante stelle quante illuminano la notte – con un sole che risveglia il giorno”.
“Occhi e corpi, luci e stelle. Nella storia, per Dallapiccola, si alternano periodi in cui domina l’occhio dello spirito a periodi in cui domina l’occhio del corpo. Al primo apparterrebbero quasi tutta l’arte primitiva e quella orientale, alla seconda l’arte greca. Quando a dominare è l’occhio dello spirito, la distinzione tra bello e brutto perde ogni valore”.
Mario Ruffini, autore del monumentale Luigi Dallapiccola e le Arti figurative (Marsilio, 2016, volume illustrato+DVD) nota giustamente che in questo appunto giovanile si può rintracciare lo “svelamento dell’opera e dell’estetica musicale di Dallapiccola: tutto si compie nel segno visivo della luce tradotta dai suoni […] e di alcune parole – come luce, cielo, stelle, notte – che segnano il suo percorso. La luce si riverbera dall’‘Altissima’ luce delle Tre Laudi, primo inizio dodecafonico, fino a Lux, ultima composizione abbozzata sul leggio al momento della morte”. Durante un incontro a casa del direttore della Universal Edition Alfred Schlee, Webern avrebbe in seguito domandato a Dallapiccola se il suo brano fosse riuscito a restituirgli su un piano sonoro l’idea della luce che illumina l’occhio. È facile immaginare la risposta di un compositore così attento alla dimensione materica del suono da capire “che la musica deve essere spezzata come un oggetto qualsiasi per vedere come è fatto dentro”.
Occhi e corpi, luci e stelle. Nella storia, per Dallapiccola, si alternano periodi in cui domina l’occhio dello spirito a periodi in cui domina l’occhio del corpo. Al primo apparterrebbero quasi tutta l’arte primitiva e quella orientale, alla seconda l’arte greca. Quando a dominare è l’occhio dello spirito, la distinzione tra bello e brutto perde ogni valore. Così, in musica, la Missa Solemnis di Beethoven non è né bella né brutta; è semmai “cento volte enigmatica e forse destinata a rimanere tale per lungo tempo ancora, come continuano a rimanere enigmatici i quattro colossi dei Prigioni di Michelangelo”. Quelle fasi della storia sono ricche di momenti in cui “dietro i suoni, o fra di essi, dietro le luci o fra di esse” è possibile cogliere le idee, il vero più che il bello, come avrebbe scritto Maurice Merleau-Ponty ne L’occhio e lo spirito. Dietro le note di Dallapiccola vi è una luce che è al contempo fenomeno fisico e simbolo mistico, colore e segno divino. E chissà che specchiandosi in esse chi ascolta, alla fine, non finisca per rivedere se stesso.
‒ Vincenzo Santarcangelo
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #38
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