MiTo Settembre Musica 2018. Gli 8 concerti migliori (e peggiori) a Torino
Si è appena conclusa la dodicesima edizione di MiTo Settembre Musica, il festival internazionale di classica che coinvolge Torino e Milano. Quest’anno, 16 giorni di concerti in ognuna delle due città (per un totale di 125 appuntamenti) hanno animato l’arrivo dell’autunno nel segno della danza, filo conduttore di tutta la rassegna. Ecco alcune considerazioni sulle esibizioni che hanno costellato la città sabauda. Alcune convincenti, altre meno.
DANZARE NEL MEDIOEVO
Spettacolare e forse sottovalutato (benché la chiesa si sia riempita di persone già mezz’ora prima), il concerto dell’Ensemble di Musica Medievale della Civica Scuola di Musica Claudio Abbado di Milano rispecchiava in maniera filologicamente impeccabile la vera idea di danza nel Medioevo: essa si fondeva con quella di musica e poesia, senza soluzione di continuità tra sacro e profano, espressione di serenità spirituale e rito peccaminoso e lascivo. Le voci e soprattutto gli strumenti – si potevano ammirare la bombarda medievale, la piva emiliana e il ciaramello – riecheggiavano, scevri di pretenziosità, quell’atmosfera insigne e misterica tipica dei luoghi meglio immaginati che vissuti; a coronare l’esecuzione, oltre a un programma ricercatissimo – composto da ballate e rondelli di autori anonimi del XII-XIV secolo, alcuni di impronta trobadorica – le danze del coro.
TRA ORATORIO E MASQUE
La Chiesa di San Filippo Neri a ogni evento viene, a ragione, presa d’assalto – lo stesso è accaduto per La consacrazione della casa di Beethoven, diretto da Guido Maria Guida il 16 settembre scorso. In questo caso, Coro e Orchestra dell’Accademia del Santo Spirito, diretti rispettivamente da Robert King e da Pietro Mussino, hanno eseguito Esther, ibrido tra masque e opera per soli, coro e orchestra di Händel, considerato il primo oratorio inglese della storia. Alla base della scelta, una considerazione di origine filologica: recenti studi hanno ricostruito il testo lacunoso della prima esecuzione, avvenuta nel 1720. Ed è proprio il testo [scaricabile dal sito di MiTo] a rapire: “La bellezza ha incantato il suo furore, / E tutta la sua ira ha disarmato”.
MITO OPEN SINGING
Il Giorno dei Cori è stato – per dirla in breve – meraviglioso. Tranne che per MiTo Open Singing: poco si addiceva quell’atmosfera da piazza (non a caso “da piazza”, dato che sarebbe stato perfetto se ci fosse stato libero accesso, nel via vai delle strade della città) a un luogo più “ricercato” come le OGR. L’iniziativa di far cantare il pubblico si è rivelata limitante per tutti quelli che non hanno una preparazione adeguata, con il risultato di attirare tanti coristi (anche professionisti) a partecipare davanti al palco e lasciare “le briciole” – e un po’ di imbarazzo – agli altri. Il programma, inoltre, ricordava quello delle recite di fine anno – e sarebbe stato legittimo, se solo avessero davvero cantato tutti – con un’accozzaglia che passava da Vivaldi a De Andrè, da What a Wonderful World di Weiss al Dona nobis pacem di Mozart. Per quanto non se ne faccia una colpa né al Coro Giovanile Italiano – che anzi, proprio in virtù della sua bravura, si sarebbe potuto guadagnare più spazio – né al simpatico direttore Gary Graden – indubbiamente geniale –, il problema è stato l’assetto dell’evento in sé. Il finale con Battisti, poi, ricordava un triste Natale.
DANZE UNGHERESI
Una viola e un pianoforte che riscrivono i capolavori di Brahms. I due giovanissimi musicisti, Nils Mönkemeyer (viola) e William Youn (pianoforte) riscoprono virtuosamente “la predilezione di Brahms per i colori degli strumenti che in orchestra occupano registri mediani, e che spesso suonano nascosti rispetto a quelli di maggiore visibilità” – prendendo in prestito le parole di Stefano Catucci, ospite d’onore e presentatore, insieme a Carlo Pavese, di molti concerti di MiTo, che grazie alla sua profonda conoscenza e alla sua cultura disponibile ha avvicinato il pubblico anche a composizioni di non facile ricezione. Se si chiudevano gli occhi, si poteva immaginare l’odore dell’incenso: il concerto nella sede del Tempio Valdese è stato un momento di raccoglimento comunitario – ironia della sorte, se si pensa che le tre lettere che compaiono nel titolo della Sonata F. A. E. indicano sia una successione di note “tematiche” (fa, la, mi) sia l’acronimo di “Frei aber einsam”, cioè “libero ma solo”, il motto canzonatorio riferito al celibato di Joseph Joachim, violinista che fu a lungo partner di Brahms.
ETOILES
Un viaggio nello spazio, sulla soglia dell’infinito, ispirato dalla fantascienza e dalle scintille dei fuochi d’artificio. Con un programma eterogeneo e dilettevole – Connesson, Mozart, Duparc e Schubert – l’Orchestra Filarmonica di Torino (diretta da Giampaolo Pretto) ben si è accordata al violino Chloë Hanslip, vera “stella” del concerto. Nonostante il Concerto n. 3 di Mozart impressionasse per lo sfoggio folgorante di bravura della Hanslip (e valesse da solo la pena di essere presenti), sono stati altri due fattori a rendere eclettico Etoiles: la prima esecuzione in Italia dei Feux d’artifice di Guillaume Connesson (1970) e la commovente interpretazione della Sinfonia n. 8 – l’“Incompiuta” – di Schubert.
PERPETUUM MOBILE
Widor, Bach, Alain, Holt: quattro grandi compositori che hanno stravolto la storia della musica pur rimanendo fedeli alla tradizione. È il senso del moto perpetuo, in cui “tutto si agita, ma si è sempre fermi”; un senso figurato non solo di unione dell’anima dell’uomo con Dio, ma anche del ricongiungimento dell’individuo con una parte recondita del suo essere. In un luogo energicamente spirituale come il Duomo di Torino, musiche insolite, piacevolmente spiazzanti, hanno solcato un mare di consensi – tutti meritati. Rimbombavano le calzature Greve di Aart Bergwerff, organista olandese che, richiamato a suon di applausi, è passato tra la folla a ringraziare – sorprendente la mole dei fan, vecchi e nuovi, che accoglievano l’artista come una rockstar. Alla domanda sulla scelta dei pezzi, ha risposto sorridendo amabilmente e con un italiano pacato: “Qui doveva essere così”.
APOTEOSI
Wagner, ne L’opera d’arte dell’avvenire, definì la Settima sinfonia di Beethoven “l’apoteosi della danza”, indicando con due parole contemporaneamente il ritmo inarrestabile dell’intreccio tra armonia e melodia e la natura glorificatrice della musica beethoveniana. Grazie alla Filarmonica della Scala e al pianoforte di Seong-Jin Cho, il concerto ha toccato le corde sensibili del pubblico, che ha potuto riscoprire con nuova attenzione, frammento per frammento, i movimenti del classico dei classici. Un encomio al direttore Myung-Whun Chung, che con i suoi movimenti aggraziati e simbolici conduceva l’orchestra in una performativa “danza nella danza”.
ALTRE DANZE
Dulcis in fundo, un concerto memorabile grazie all’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (diretta da Stanislav Kochanovsky) e all’ambizioso violoncello di Enrico Dindo. Catucci ha introdotto la serata finale con un’avvertenza: “Probabilmente, il pubblico ancora non ha idea di stare per vivere un’esperienza unica e imperdibile”. Le parole del presentatore non hanno mancato di attendibilità: la prima esecuzione in Italia dell’Azul di Osvaldo Golijov ha trascinato gli ascoltatori in un turbinio di evanescenze barocche (non a caso è stato definito “una sorta di ciaccona del XXI secolo”), balcanismi allitteranti (la madre di Golijov, infatti, è rumena) e parcelle di suoni esclusivi di una cultura mutevole e disinvolta. La Quarta Sinfonia di Brahms ha concluso il concerto con una nota di nostalgia; un’ultima danza malinconica per coronare, in un solo guizzo, tutte le danze del festival.
‒ Federica Maria Giallombardo
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