La prima volta dell’Ulisse di Monteverdi nel Lazio
Nell’ambito del Reate Festival dedicato al teatro musicale, sono andate in scena a Roma e a Rieti le prime esecuzioni dell’“Ulisse” di Monteverdi, a più di tre secoli dalla première veneziana. Al debutto capitolino c’eravamo anche noi.
Il Ritorno di Ulisse in patria di Claudio Monteverdi non era mai stato rappresentato finora né a Rieti né – e la cosa è ben più sorprendente – a Roma. Pertanto le rappresentazioni che si sono succedute, nell’ambito del Reate Festival, al Teatro di Villa Torlonia e al Teatro Flavio Vespasiano tra il 5 e il 10 ottobre scorsi ‒ un debutto realizzato in collaborazione con l’Accademia Filarmonica Romana, il Teatro di Roma, e il Teatro dell’Opera di Roma ‒costituiscono le prime esecuzioni di quest’opera nelle due città. La scelta di allestire le repliche capitoline nel teatro dell’ultima grande villa romana si è rivelata particolarmente felice, perché il bel teatro dei Torlonia si presta molto bene, nelle sue dimensioni raccolte, alla messa in scena di opere barocche.
L’Ulisse, rappresentato per la prima volta a Venezia nel 1640, è la meno nota delle opere che compongono la trilogia monteverdiana, trilogia casuale perché non è il risultato di un progetto unitario, ma ahimè dell’accanirsi del Fato, che ci ha lasciato solo tre gemme operistiche del divino Claudio, facendo naufragare tutto il resto (basti citare una sola lacrimevole mancanza: l’Arianna). Opera tarda, come L’incoronazione di Poppea, ma meno accattivante di quest’ultima, e lontana dalle vette poetiche dell’Orfeo, l’Ulisse contiene comunque pagine molto belle, che sono state in questa occasione adeguatamente proposte e messe in risalto.
UNO SPETTACOLO VIVACE
Tutto ha concorso a uno spettacolo vivace e mai noioso, a dispetto delle sue tre ore di durata. La regia di Cesare Scarton ha saputo dare chiarezza e verosimiglianza all’azione scenica, anche grazie alle ottime capacità attoriali dei cantanti; belle in particolare alcune scene a due, di forte intensità erotica, come quella nel primo atto tra Melanto ed Eurimaco, e certe scene corali, come il canto di gioia dei Feaci e la loro successiva trasformazione in scoglio, per volere dell’implacabile Nettuno. E non è mancato nemmeno, come si chiarisce nelle note di regia, qualche riferimento all’attualità, con pochi generosi che accolgono fraternamente il profugo Ulisse e i Proci che calpestano il sacro valore dell’ospitalità, travolti come sono dal loro edonismo. Non a caso il buon pastore Eumete è davvero un pastore, ovvero un prete, forse ad alludere al ruolo che la Chiesa, assai più di istituzioni spesso latitanti o ostili, riveste oggi nell’accoglienza degli ultimi. Essenziale la scenografia di sapore archeologico di Michele Della Cioppa, in grado di adattarsi a rappresentare, tramite minimali modifiche, la reggia di Penelope, così come la spiaggia di Itaca o la capanna di Eumete. I costumi di Anna Biagiotti fanno sì che la vicenda risulti ambientata ai nostri giorni (con i Proci efficacemente a metà tra lo Studio 54 e un clan camorristico); gli dei però vestono abiti di inizio Novecento, che ben si sposano con l’atmosfera e lo stile del Teatro Torlonia.
I PROTAGONISTI
Ottime le giovani voci che ‘recitano cantando’ la vicenda. Sarebbe il caso di ricordarle tutte, ma per motivi di spazio tocca sottomettersi a una spietata selezione: e dunque menzioniamo almeno la mesta Penelope di Lucia Napoli, la Minerva di Sabrina Cortese, la sexy cameriera Melanto impersonata da Michela Guarrera, il tragicomico Iro di Alessio Tosi, gli insistenti Proci (Luca Cervoni, Giacomo Nanni, Enrico Torre). Senza dimenticare naturalmente il protagonista Ulisse, cui dà voce Mauro Borgioni, ammirevole per la potenza e la malleabilità dell’emissione. A condurre questa allegra brigata, nonché i notevoli strumentisti del Reate Festival Baroque Ensemble, ci pensa il maestro Alessandro Quarta, che con il suo meraviglioso Concerto Romano da tempo ci somministra esecuzioni memorabili di pagine barocche più e meno note. Seduto a uno dei due clavicembali in organico, Quarta è nel corso della direzione meno coreografico di quando dirige in piedi, ma non meno preciso, attento a cogliere ogni sfumatura e a evidenziare le dinamiche e gli impulsi ritmici. Grazie alla sua interpretazione e a quella di cantanti e strumentisti, si resta stregati dallo spettacolo, sospesi tra il Seicento e la realtà attuale; e, sebbene la storia narrata sia arcinota, si vuol proprio vedere (e sentire) come va a finire.
‒ Fabrizio Federici
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