Opera lirica e high tech. La Trilogia d’Autunno di Ravenna

Le nuove tecnologie applicate alla messa in scena dell’opera lirica si rivelano un prezioso strumento. Per abbattere i costi e ottenere effetti di grande impatto.

Uno degli aspetti salienti dell’ultima Trilogia d’Autunno proposta a Ravenna (23 novembre-2 dicembre) è il grado di raffinatezza raggiunto nell’utilizzo delle nuove tecnologie per abbattere i costi delle messe in scena e facilitare la fruizione degli spettacoli.
Da sette anni le Trilogie d’Autunno estendono il Ravenna Festival, che di solito si dipana in sei settimane tra giugno e luglio, con una ripresa in novembre. In questo caso una Trilogia consiste in tre spettacoli musicali rappresentati durante tre sere successive, collegati da un tema e soprattutto accomunati dalla medesima regia e ideazione scenica.
Anima delle Trilogie di opere liriche, nonché creatrice del festival, è Cristina Mazzavillani Muti. Quest’anno la Trilogia è stata dedicata a tre opere di Verdi (Nabucco, Rigoletto, Otello) che rappresentano altrettanti momenti dello sviluppo artistico del compositore, avendo debuttato rispettivamente nel 1842, nel 1851 e nel 1887. Sono tre modi diversi non solo di concepire il teatro in musica (da uno spettacolo ancora legato agli stilemi di Rossini e Donizetti a una risposta originale ispirata al musikdrama wagneriano), ma di vedere le varie facce del potere (tema dominante di questa trilogia). A Verdi erano state dedicate già la prima Trilogia nel 2012, quando vennero messe in scena Rigoletto, Trovatore e Traviata, e la seconda, nel 2013, quando, nel bicentenario della nascita del compositore, venne messo in luce il binomio Shakespeare-Verdi (quindi, Macbeth, Otello e Falstaff). Il magnifico Teatro Alighieri ha 800 posti, al pari di altri teatri in città d’arte italiane e straniere. Per tale motivo occorre pensare a spettacoli il cui allestimento scenico abbia costi contenuti, che possano viaggiare senza spese eccessive e si adattino facilmente a palcoscenici di differenti configurazioni.
Le produzioni devono, poi, soddisfare un pubblico che non vuole necessariamente vedere regie sperimentali come – citando casi concreti – un Nabucco collocato al tempo della persecuzione nazista contro gli ebrei; un Rigoletto ambientato in un ospedale per malattie mentali; oppure un Otello che ha luogo in un centro di identificazione per immigrati appena arrivati dal mare. In Nabucco, ad esempio, il pubblico attende i palazzi e i giardini pensili di Babilonia, in Rigoletto i banchetti lussuriosi alla Corte di Mantova e in Otello la Cipro rinascimentale sotto il dominio veneziano. La ricetta, rodata nelle precedenti Trilogie e ormai diventata un marchio di fabbrica di questo appuntamento autunnale ravennate (le cui produzioni sono state riprese da altri teatri – Falstaff è stato in giro per diversi anni dal debutto) è semplice: cast e masse artistiche giovani, ma non principianti e soprattutto scelti con una seria selezione internazionale; impiego delle tecnologie più moderne per l’apparato scenico, puntando in gran misura su luoghi non solo attinenti al testo ma conosciuti dagli spettatori. Soffermiamoci su questo secondo aspetto.

Ravenna Festival 2018. Giuseppe Verdi, Rigoletto. Photo © Zani Casadio

Ravenna Festival 2018. Giuseppe Verdi, Rigoletto. Photo © Zani Casadio

L’AIDA ALLE TERME DI CARACALLA

Non è certo la prima volta che l’high tech viene in aiuto all’opera. Non solo da anni le proiezioni sono ricorrenti negli spettacoli lirici, ma ricordiamo, nell’estate 2005, un’Aida supertecnologica, che dalla Washington Opera della capitale degli Stati Uniti giunse nel grandioso spazio delle Terme di Caracalla a Roma. Non c’era la cartapesta delle produzioni realizzate per Caracalla dagli Anni Trenta ai Cinquanta. Non c’era neanche la struttura hollywoodiana in plastica creata da Camillo Cruciani per sbalordire il pubblico degli Anni Cinquanta – che ha resistito sino agli Anni Settanta ben inoltrati. L’impianto era interamente tecnologico: proiezioni di grafica computerizzata (in linea con la musica oltre che con l’azione scenica) non solo su sei quinte e su un sipario mobile, ma soprattutto sulle rovine. Un allestimento che ci si porta dietro in un paio di hard-disk o addirittura in una penna USB. Era frutto dell’ingegnosità di due italiani allora quasi ignoti (o ignorati) in patria ‒ Paolo Miccicché e Antonio Mastromattei – e della grafica di Patrick Watkinson. I costumi, spartani di Alberto Spiazzi sembravano di gran lusso grazie alle luci di Bruno Monopoli. L’effetto era suggestivo. Consentiva anche una riduzione di comparse: nel “trionfo” del secondo atto ne bastano una ventina per dare l’impressione che siano oltre duecento. La tecnologia – lo sappiamo ‒ abbassa i costi: chi studia l’economia delle arti sceniche, e dell’opera lirica in particolare, conosce la “malattia di Baumol” (dal nome dell’economista William Baumol), secondo cui senza il supporto pubblico il teatro in musica è destinato a perdere competitività, proprio perché non può avvantaggiarsi del progresso tecnologico che in forma molto limitata. Negli Stati Uniti, dove la lirica è finanziata in gran misura dai privati, si cerca di acciuffare tutto il progresso “abbassa costi” che si può.

Ravenna Festival 2018. Giuseppe Verdi, Otello. Photo © Zani Casadio

Ravenna Festival 2018. Giuseppe Verdi, Otello. Photo © Zani Casadio

LA PICCOLA LIRICA A ROMA

Altro esempio poco noto è quello della Piccola Lirica che, per una quindicina d’anni, tre ragazze (non proprio liceali) hanno condotto al Teatro Flaiano di Roma. La stampa italiana si è occupata poco e raramente della loro avventura. La vicenda ha, però, interessato il New York Times, The Indipedent e alcuni dei maggiori quotidiani giapponesi (oltre che alcune riviste specializzate), nonché il mensile canadese La Scena Musicale e siti internazionali come Opera Today e Music and Vision. Appena 150 posti, in una stradina nel cuore della Roma turistica. La Piccola Lirica è stata luogo di sperimentazione di tre ragazze: Rosanna Siclari, impresario e regista, Gianna Volpi, scenografa, ed Elisabetta Del Buono, direttore musicale e maestro concertatore. In primo luogo, lo spettacolo deve essere, per utilizzare il linguaggio dell’informatica, “user friendly” – amico nei confronti dello spettatore. Inizio alle 20 in punto e termine alle 21,30 per dare modo di andare a cena nei ristoranti e trattorie sparpagliati nella vecchia Roma. In secondo luogo l’opera (anche se ridotta) veniva presentata con tutti i suoi elementi essenziali ma adattati a una sala piccola. Le scenografie erano di lusso ma virtuali, grazie a proiezioni computerizzate e integrazioni di filmati. In Tosca si era trasportati a Sant’Andrea della Valle, a Palazzo Farnese e a Castel Sant’Angelo da riproduzioni al tempo stesso fedeli ai luoghi e visionarie. Assistiamo alla fuga in carrozza di Tosca dopo avere accoltellato Scarpia e, mentre suonano le note dell’introduzione, all’entrata furtiva di Angelotti in Chiesa. In Madama Butterfly le scene portavano il segno della storia della pittura giapponese, da Tawaraya Sōtatsu all’avanguardia delle ultime Biennali d’arte contemporanea. E l’orchestra? Benjamin Britten, consapevole delle difficoltà sempre più severe di un comparto destinato a perdere competitività rispetto ad altre forme di spettacolo dal vivo, riscrisse i propri capolavori per grande organico orchestrale (ad esempio Billy Budd) in edizioni per due pianoforti (tagliando alcune scene e qualche personaggio). L’orchestra era composta da cinque professori di piano, ciascuno alla tastiera di un sintetizzatore elettronico giapponese (la Japan Electronic Keyboard Society patrocinava l’operazione). Grazie alla tecnologia digitale audio e ai sistemi informatici MIDI, la Synth Lyric Orchestra (è questo il nome della formazione) simula un organico di 60-70 elementi. La Piccola Lirica ha retto per quindici anni senza il becco di una sovvenzione pubblica.

Ravenna Festival 2018. Giuseppe Verdi, Rigoletto. Photo © Zani Casadio

Ravenna Festival 2018. Giuseppe Verdi, Rigoletto. Photo © Zani Casadio

LA TRILOGIA

Torniamo alla Trilogia ravennate. La scenografia fa grande uso di proiezioni, spesso di immagini di luoghi e ambienti noti. Ad esempio, la Babilonia di Nabucco è costruita su riprese del Pergamonmuseum di Berlino con uno zoom che ne accentua effetti e dettagli muovendosi in sintonia con musica e canto. Immagini del vero Palazzo Ducale e del vero Palazzo Te di Mantova incorniciano la vicenda di Rigoletto. In Otello si opta per una semplice scena unica, una scalinata, un’attrezzeria minima e giochi di luce, nonché effetti speciali per la tempesta e l’approdo della nave del protagonista. Il team creativo, diretto da Cristina Mazzavillani Muti, include un visual designer (Davide Broccoli), un light designer (Vincent Longuemare), uno specialista di immagini (Paolo Miccichè, il quale, ricordiamolo, nel 2005 ci sorprese e incantò con l’Aida supertech alle Terme di Caracalla) e tecnici tutti di base a Ravenna. Il risultato è non solo un apparato scenico attraente (e sincronizzato con libretto e musica), ma che abbatte i costi e facilita i cambiamenti di scena e di spettacolo, nonché le tournée. Per i costumi si utilizza l’ampia scelta dei magazzini della Casa Tirelli. In breve, un modo ingegnoso di fare teatro in musica.
Gli spettacoli di quest’anno si vedranno in “teatri di tradizione” di città d’arte italiane e sono già richiesti all’estero. La metà del pubblico in platea di questa Trilogia 2018 era straniero, proveniente da Finlandia, Svezia, Olanda e Gran Bretagna, oltre che dalle più vicine Austria, Germania e Francia

Giuseppe Pennisi

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Giuseppe Pennisi

Giuseppe Pennisi

Ho cumulato 18 anni di età pensionabile con la Banca Mondiale e 45 con la pubblica amministrazione italiana (dove è stato direttore generale in due ministeri). Quindi, lo hanno sbattuto a riposo forzato. Ha insegnato dieci anni alla Johns Hopkins…

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