Romaeuropa Festival. Musiche, teatri e altre “ellissi”

Il Romaeuropa Festival, terminato il 25 novembre con un gran finale in compagnia di molti protagonisti, tra cui l’artista visivo e musicista giapponese Ryoji Ikeda, si è esteso quest’anno in molte direzioni. La musica è stata una di queste.

Tra i molti eventi legati a varie discipline artistiche inclusi nel Romaeuropa Festival, un’interessante maratona sonora al MAXXI ha ricostruito una parte del percorso delle avanguardie musicali. Il pianista Fabrizio Ottaviucci ha eseguito un pezzo di Cornelius Cardew e uno di Alvin Curran. E sul primo, che mette in dubbio in tutti i modi le funzioni degli strumenti classici, si è scatenato utilizzando tutto il piano come tamburo, come contrabbasso, come orchestra. Ha suonato poi un pezzo di Alvin Curran come un assolo di batteria, trascinante e affollato di suoni diversi. È un’operazione di “total recall” delle operazioni Fluxus, che ne dimostra la vitalità e la necessità in un momento dove la musica contemporanea sembra arrestarsi sui territori già conquistati. È il reinventare la musica classica negandola, tipico del periodo delle Neoavanguardie. C’era anche il gruppo Edison Studio (Luigi Ceccarelli, Fabio Cifariello Ciardi, Alessandro Cipriani, Vincenzo Core), che lavora da tempo sulle colonne sonore per il cinema muto eseguite in diretta in forma di concerto audiovisivo, fra cui il Das Kabinett des Doktor Caligaris, Gli ultimi giorni di Pompei, e altri film di rilevante interesse. Questa volta hanno affrontato il capolavoro intoccabile, la Corazzata Potemkin di Sergei Eisenstein su cui avevano lavorato Meisel, Krjukov e Šostakovič, quest’ultimo utilizzato poi per il film con l’avvento del sonoro. Al di là della crescente irritazione di fronte all’aspetto propagandistico che aveva portato alla parodia da parte di artisti dissidenti, come aveva fatto il polacco Zbigniew Rybczyński in Steps, negli Anni Ottanta. In realtà il film ha una intatta forza formale che scivola fuori dall’eroismo epico di Šostakovič. Su questo dato si concentra il gruppo, lavorando con una gamma di suoni che evidenziano le strutture visive del film, il suo leggendario e ancora attualissimo montaggio, mettendo in secondo piano gli aspetti emotivi. Nel film, restaurato dalla Cineteca di Bologna, nel bianco e nero risalta alla fine la bandiera rossa, unico colore. Ma il suono nel frattempo ha trasformato l’immagine in una vasta tela su cui si muovono le letture spaziali e le connessioni di senso del Futurismo russo, dalle fotografie di El Lissitzky agli spazi di Malevič, acquistando una diversa leggerezza e astrazione, una velocità diversa. Così mutato, il film inizia a prendere altre forme inaspettate, altre forme/cinema.

Ryoji Ikeda + Eklekto, Music for percussion. Photo Raphaelle Müller

Ryoji Ikeda + Eklekto, Music for percussion. Photo Raphaelle Müller

STRUMENTI E NOISE

Il gruppo Tempo Reale riprende il concetto di dispositivo da Deleuze nella Simphony Device, dove mette al centro dell’attenzione gli strumenti produttori di suono. Strumenti che sono un’innumerevole quantità di “dispositivi” disparati: frullatori, lavatrici, televisori disturbati, allarmi, suonerie, motori, motorini… La regolazione dei vari dispositivi aggregati alla rinfusa ha risonanze da grande orchestra e insieme cataloga gli innumerevoli strumenti che creano il sottofondo del nostro quotidiano. I suoni dello spazio contemporaneo sono spesso stati letti in musica come “componente ambientale”, “rumore di fondo” e la storia della “musica materica” modernista (i futuristi, George Antheil e molti altri più recentemente) fino all’ingresso nell’area rock e techno con un genere, il “noise”, che resiste dagli Anni Ottanta.
Isaac Asimov chiede (nel romanzo The Foundation): “Quali sono i due punti più lontani in un’ellisse?”, per rispondere: “I due punti più vicini”. Il percorso musicale di quest’anno del Romaeuropa Festival ha tracciato un’ellisse che parte dall’avanguardia Anni Sessanta per arrivare al noise di Ryoji Ikeda, tratto dalle operazioni di software fatte in tempo reale. Sono i codici che sentiamo ma non possiamo leggere, e il loro svelarsi è una pratica entrata nel fare di molti musicisti e vj come un patrimonio comune di chi fa suono-immagine digitale, area in cui Ikeda è considerato maestro. Il pezzo Datamatics (versione 2.0) macina suoni mentre eserciti di segni telematici marciano a tempo sullo schermo, visualizzando in questo modo l’ambiente “digitalizzato” in cui ci muoviamo. Il pezzo è di lunghezza media (meno di un’ora), ma in altri concerti Ikeda ha fatto pezzi anche di dieci o venti minuti in cui si esauriva il concerto, per staccare, capovolgere e stravolgere la logica del “tappeto sonoro”, che da troppo tempo limita la musica digitale. E qui (colpo di scena) Ikeda ha presentato un altro pezzo con il gruppo Eklekto; Music for percussion, 45 minuti di lievissimi suoni di piatti, triangoli, metalli, crotales e altri minimalissimi strumenti che evidenziano una controproposta, o comunque una pausa di riflessione, e un confronto fra suono digitale e le percettività del suono analogico.

Angélique Kidjo. Photo credit Sofia and Mauro, 2017. Courtesy Romaeuropa Festival

Angélique Kidjo. Photo credit Sofia and Mauro, 2017. Courtesy Romaeuropa Festival

JAZZ-FUSION

Molto bene il concerto di Franco D’Andrea con il suo ottetto, che prova la necessità del jazz di dialogare e fondersi con la musica contemporanea delle dissonanze e dei controtempi, che sembra importante quanto lo è stata a suo tempo la relazione con altre musiche. A chiudere i percorsi, attualità e tradizione nel concerto di Angélique Kidjo, figura carismatica di una nuova presenza culturale africana che ricorda la grande Miriam Makeba, la sua attività di musicista-cantante e la sua presenza politica nei rapporti culturali fra Europa e Africa. Il suo ultimo disco è un’altra operazione ellittica che parte dal pop colto occidentale, i Talking Heads degli Anni Ottanta, per trasformarlo e riportarlo in occidente dopo un passaggio africano di citazioni e mediazioni fra musiche e culture, come avvenne a suo tempo dall’Africa verso gli Stati Uniti attraverso la musica di Fela Kuti e del suo afro-jazz. I videoclip del disco Remain in light invadono già YouTube e il pop-rock-new wave rinasce in versione africana. L’ellissi di Asimov si riforma tornando al contrario verso le radici africane di un importante episodio della musica pop colta e d’avanguardia degli Anni Ottanta.
Arriva poi Matthew Herbert con un concerto jazz-fusion che vuole esorcizzare e spazzar via il pesante carico della Brexit. Il festival, dopo aver occupato diversi mesi fra estate e autunno, si è chiuso all’inizio dell’inverno. Data la vasta area coperta, dal teatro-danza al teatro di figura, dalla storia e dalle storie del suono ai grandi concerti, dai new media alla videoarte e altro ancora, si può dire che si sentirà un vuoto. Ci si può quindi domandare: questo vuoto sarà riempito? È possibile creare altre ipotesi di rassegne per occupare i mesi da dicembre alla primavera? I vari festival si consumano prima di Natale lasciando una pausa problematica. Come occuparla?

Lorenzo Taiuti

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Lorenzo Taiuti

Lorenzo Taiuti

Lorenzo Taiuti ha insegnato corsi su Mass media e Arte e Media presso Academie e Università (Accademia di Belle Arti di Torino e Milano, e Facoltà di Architettura Roma). È esperto delle problematiche estetiche dei nuovi media. È autore di…

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