Leigh Bowery secondo Lorenzo LSP
Dopo il focus sulle origini dell’estetica glam in ambito musicale, un approfondimento dedicato a Leigh Bowery, raccontato da Lorenzo LSP, storico portavoce della club culture Anni Ottanta.
Costume designer, cross-dresser, neodandy per definizione. Quella di Leigh Bowery è stata una rivoluzione estetica partita dalla notte. A metà Anni Ottanta, la scena gay e la sottocultura drag stavano ponendo le basi per un nuovo modo di intendere l’identità all’interno dell’underground. La musica è stata il primo grande agente di trasformazione. Nei club si ballava e li si frequentava per essere “favolosi”. Londra a quei tempi era trasgressiva e percorsa da innumerevoli fermenti artistici. Il Taboo era un crocevia di stravaganza e genialità, la cui influenza è stata imprescindibile per la moda inglese: da Vivienne Westwood ad Alexander McQueen, da John Galliano a Gareth Pugh.
Abbiamo ricordato questo periodo con Lorenzo LSP, che in quegli anni, insieme a Roberto Spallacci di Club To Club, aveva fondato la Latin Super Posse, facendosi portavoce delle nuove sonorità della club culture, dal rap alla house, portando a Torino dj e artisti come Run DMC, Frankie Knuckles, Rocky&Diesel, Heller&Farley, la Mutoid Waste Company e persino Leigh Bowery.
Il Tuxedo e lo Studio Due sono locali che a Torino hanno determinato una svolta culturale. Da dove parte la tua storia con il nightclubbing?
Sono cresciuto tra le mura del Tuxedo, dove andavo con Johnson Righeira, che frequentava il mio liceo. Con lui sono stato anche la prima volta al Plastic a Milano. Resident del Tuxedo era Roberto Spallacci. A quei tempi ero molto appassionato di musica e avevo cominciato a suonare, alle domeniche dello Studio Due, lo psychobilly, un genere che fondeva rockabilly e punk rock. Ma essendo molto molto curioso, il mercoledì andavo al Tuxedo, dove suonavano la new wave e la prima electro con Athos e Nicola.
E in poco tempo hai fondato la tua one night…
Frequentando lo Studio Due ho capito che lo psychobilly aveva dei limiti e ho iniziato a mischiare la new wave con i brani Anni Settanta, come faceva Nicola Guiducci al Plastic, facendo da supporter a Roberto Spallacci. Da quella collaborazione è nata la Latin Superb Posse, la cui one night, Pop Planet allo Studio Due, è stata una svolta. Suonavamo musica black: rap, rare groove e la prima house. Compravo i dischi da Louis, dove arrivavano questi vinili da Chicago, che avevano un campione che faceva semplicemente “it’s… it’s… it’s… it’s ok”. Sembravano usciti da Marte. Con la Latin Superb Posse abbiamo fatto anche delle one night in giro per l’Italia, ospitando personaggi come Ice-T o gli House of Field, la casa di vogueing legata a Patricia Field.
Nel 1989 avete ospitato anche Leigh Bowery. Come ci siete riusciti?
Con Claudio Coccoluto avevo cominciato a lavorare per il Pussy Galore a Le Cinemà. Loro avevano invitato Leigh Bowery e noi avevamo colto l’occasione per fare una seconda data allo Studio Due. Quando si presentò col cabbage look, quindi vestito interamente come un cavolo, col volto coperto e la pancia incinta, sulle note di Star Trek, eravamo attoniti. Sono seguiti una manciata di cambi di costume, tra cui l’assorbente interno con la scritta “Cunt”.
Parlando di identità di genere, travestitismo, queerness: come lo inquadreresti?
Leigh Bowery è stato un caso unico. Da un punto di vista di immaginario legato alla musica e alle icone del pop, Londra in quel periodo usciva dall’androginia e da un richiamo alla bisessualità alla David Bowie. Si trattava di un’estetica “trasgressiva”, che transitava dal maschile al femminile, ma orientata alla bellezza diafana ed efebica. Poi c’era l’universo delle drag queen, perché la loro presenza nei porti inglesi è un fatto storicamente documentato. Leigh Bowery però non era assimilabile né a un filone né all’altro, perché oltrepassava il genere o il concetto aspirazionale dell’essere donna, che si traduce, oggi come ieri, nel sovvertire l’identità maschile indossando abiti e accessori femminili.
Le collaborazioni artistiche sono state determinanti per traghettarlo dal mondo dei club a quello della cultura.
Ha collaborato con il ballerino Michael Clark come costume designer, col fotografo Nick Knight, col filmmaker Charles Atlas, che gli ha dedicato il documentario The Legend of Leigh Bowery, e con il pittore Lucian Freud, prima di fondare i Minty con Richard Torry. Leigh Bowery non è stato un semplice disco freak ma un neodandy, con un approccio cross-culturale al costume e votato al superamento della moralità. Indimenticabile è il clistere sul pubblico durante una sfilata. Nei suoi costumi c’è un certo feticismo che può ricondurlo alla scena gay ma al pari di molti altri riferimenti, come The House of Beauty and Culture, che propugnava una resistenza post-punk nei confronti della cultura di massa, attraverso una moda radicale e selvaggia. Non parlerei di transgenderismo né di travestitismo, ma direi che ha rappresentato la punta più estrema della moda inglese tra la metà degli Anni Ottanta e i primi Novanta, diventando anche l’attrazione principale del Taboo.
… un locale e un fenomeno culturale nato in un periodo che stava perdendo la sua spensieratezza.
Il Taboo è stato il prodotto di un momento storico così creativamente disagiato da risultare favoloso. Gli anni dell’Aids erano alle porte e la sessualità era tornata un tabù. C’è stata una forte sublimazione. Credo che molti look di Leigh Bowery, soprattutto dell’ultima parte della sua vita, risentissero di questa negazione della sessualità e del desiderio di oltrepassarla. All’inizio degli Anni Ottanta, Cruising, il film di William Friedkin, aveva raccontato un modo nuovo di vivere la sessualità della cultura gay prevalentemente bianca, che in seguito era stata chiamata a prendere le distanze proprio da quell’euforia e da quella libertà iniziali.
Possiamo parlare di una distinzione tra club lgbtq ed eterosessuali?
Metterei più in evidenza la distinzione tra la musica dei locali gay classici londinesi, o dei club della zona di Earl’s Court, frequentati dai clone, i sosia di Freddie Mercury, che ballavano una musica high-energy, e i locali come il Taboo, che erano meno disciplinati e più orientati alla sperimentazione, dove si ballava anche la etnica. È stato un periodo di rivolgimenti, dove dal dark e dalla new wave si è passati alla prima dance e a un maggiore interesse per la musica nera, con una fase proto-house. Si parla, anche ricordando il daisy chain, di un passaggio dalle chitarre ai campioni e di una trasformazione sociale molto profonda che ha portato alla “Summer of Love”.
Mentre a New York c’erano i Club Kids…
New York l’ho frequentata meno, però sono stato ai party dei Club Kids di Michael Alig e sono molto legato alla scena vogueing. Ma bisogna fare dei distinguo. Il vogueing ha rappresentato un’alternativa alla strada per i giovani afroamericani omosessuali, i Club Kids sono stati un fenomeno molto più legato alle droghe. Non che nei club di Londra mancassero, ma non è stato così delirante. Londra ha sempre puntato più sul design, l’arte, la cultura pop, la voglia di liberarsi da ogni costrizione sociale. Quando si parla di Club Kids, invece, viene subito in mente il film Party Monster, dove si racconta l’uccisione di un club kid, verosimilmente uno spacciatore, per questioni di debiti.
‒ Carlotta Petracci
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #46
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