Pop sotterraneo: tutti (o quasi) gli album che dovete ascoltare
Prosegue l’analisi di Christian Caliandro sul “fenomeno” del pop sotterraneo, che per sua stessa natura è destinato fin dagli esordi al successo mainstream. Qui trovate anche un listone di tutto quello che dovete ascoltare per capire di cosa stiamo parlando.
Il pop sotterraneo è, tecnicamente, un errore. Un’aporia. Nasce con una pervicace attitudine all’ambiguità e all’ambivalenza: che cosa c’è infatti di più contraddittorio di una canzone o di un disco che si muove tra sperimentazione e mainstream, tra luminosità popolare e oscurità creativa?
Questa condizione strutturalmente sospesa è alla base, se ci pensiamo, del concetto stesso di sottocultura. Come ho spesso scritto in passato su queste pagine e altrove, noi conosciamo unicamente quelle sottoculture musicali che hanno compiuto il passaggio cruciale dalla dimensione locale e urbana a quella nazionale e internazionale: è stato così per il glam, il punk, il post-punk nelle sue varie declinazioni, l’hip-hop, la techno, il grunge, il brit pop, il noise, lo shoegaze, lo stoner, il doom e il drone metal. Ognuno di questi movimenti si è infatti ‘suicidato’ in quanto sottocultura per accedere al livello di cultura ufficiale, veicolata dai canali istituzionali e dai mezzi di comunicazione di massa. In tal modo, è potuta avvenire la magia di un adolescente, mettiamo, del Brasile, del Giappone o della Puglia che a metà Anni Novanta fruisce in tempo reale e quasi in presa diretta un contenuto elaborato e prodotto in Gran Bretagna o nel Nord-Ovest degli Stati Uniti.
Nella stessa maniera, a livello stilistico il pop sotterraneo prende i risultati migliori di un certo tipo di innovazione, e li condensa in una forma altamente riconoscibile – “classica”, per così dire. E l’aspetto più interessante forse è che, così facendo, il gruppo si inoltra quasi sempre in un territorio inesplorato. La logica non è infatti semplicemente quella della band “che si vende” (al mercato, ai fan, al sistema, ecc. ecc.), quanto piuttosto quella della band che costruisce qualcosa che prima non esisteva, rendendo ‘commestibile’ (= commerciabile) qualcosa che immediatamente prima risultava ostico, immangiabile, inaffrontabile ai più – e al tempo stesso trasformando in profondità quel qualcosa, cristallizzandolo, rendendolo soffice e duro, attribuendogli cioè qualità che non appartengono a un’unica identità artistica.
I DISCHI CHIAVE DEL POP SOTTERRANEO
Per capire ciò di cui stiamo parlando, basta pensare a oggetti compiuti come: The Dark Side of the Moon (1973), Wish You Were Here (1975), Animals (1977) e The Wall (1979) dei Pink Floyd; Horses (1975), Radio Ethiopia (1976) e Easter (1978) di Patti Smith; la trilogia berlinese (Low-Heroes-Lodger, 1977-‘79) e Scary Monsters (and Super Creeps, 1980) di David Bowie; The Idiot (1977) di Iggy Pop; Fear of Music (1979) e Remain in Light (1980) dei Talking Heads; Real to Real Cacophony (1979) e Empires and Dance (1980) dei Simple Minds; Organization (1980) e Architecture & Morality (1981) degli Orchestral Manoeuvres in the Dark; Movement (1981), Power, Corruption & Lies (1983) e Low-Life (1985) dei New Order; Pornography (1982), Japanese Whispers (1983), Kiss Me Kiss Me Kiss Me (1987), Disintegration (1989) e Wish (1992) dei Cure; Journeys to Glory (1981) e True (1983) degli Spandau Ballet; Violator (1990), Songs of Faith & Devotion (1993) e ULTRA (1997) dei Depeche Mode; The Unforgettable Fire (1984), Achtung Baby (1991), Zooropa (1993) e Pop (1997) degli U2 (un discorso a parte merita Original Soundtracks 1, 1995, con Brian Eno); Out of Time (1991), Automatic for the People (1992) e Monster (1994) dei R.E.M.; Nevermind (1991) e In Utero (1993) dei Nirvana; Vs. (1993), Vitalogy (1994) e No Code (1996) dei Pearl Jam; Badmotorfinger (1991) e Superunknown (1994) dei Soundgarden; Angel Dust (1992) dei Faith No More; Purple (1994) e Tiny Music… Songs from the Vatican Gift Shop (1996) degli Stone Temple Pilots; Live Through This (1994) delle Hole; The Downward Spiral (1994) e The Fragile (1999) dei Nine Inch Nails; Spirit of Eden (1988) e Laughing Stock (1991) dei Talk Talk; Daydream Nation (1988), Dirty (1992) e Experimental Jet Set, Trash & No Star (1994) dei Sonic Youth; Spiderland (1991) degli Slint; Gish (1991), Siamese Dream (1993), Mellon Collie and the Infinite Sadness (1995) e Adore (1998) degli Smashing Pumpkins; Parklife (1994), The Great Escape (1995) e Blur (1997) dei Blur; Gentlemen (1993) e Black Love (1996) degli Afghan Whigs; e l’elenco potrebbe proseguire ancora a lungo.
DALLA SOTTOCULTURA AL SUCCESSO DI MASSA
Ciò che accomuna questi album, così diversi tra loro, è che sono stati tutti concepiti con un’attitudine sottoculturale, di ricerca, ma fin dall’inizio – da prima, in effetti, della loro pubblicazione – si presentavano già come oggetti culturali destinati al successo di massa. Proverbiale rimane, in questo senso, la testimonianza della madre di Kurt Cobain, che quando sentì la cassetta con il demo di Nevermind messa dal figlio sullo stereo di casa, capì subito con un brivido che nulla di lì a poco sarebbe stato più lo stesso.
Ovviamente, il pop sotterraneo – e i suoi autori – danno il meglio di sé nelle condizioni piùcatastrofiche (e apparentemente sfavorevoli), in un clima cioè di sfacelo esistenziale e di disintegrazione creativa: opere capitali, in questo senso, sono proprio Disintegration, Songs of Faith & Devotion e The Fragile.
C’è una linea nascosta che collega, infatti, i risultati più alti del sub-pop con la “fine-di-tutte-le-cose”: la sua ambiguità di fondo si attiva meravigliosamente, e misteriosamente, attraverso la nostalgia, non tanto e non solo di ciò che è stato, ma anche e soprattutto di ciò che non è stato – e che non sarà mai.
‒ Christian Caliandro
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