L’opera lirica può vivere senza il blackface? Il caso dell’Aida di Zeffirelli all’Arena di Verona
Il rifiuto del soprano Angel Blue di cantare all’Arena di Verona nella Traviata per protesta contro l’uso del volto “annerito” con il trucco in una rappresentazione dell’Aida, riporta al centro dell’attenzione una questione spinosa come il blackface nel teatro d’opera contemporaneo
“Il blackface è una pratica profondamente sbagliata: è offensivo, umiliante e apertamente razzista”. È la dichiarazione inequivocabile del soprano statunitense Angel Blue che ha cancellato il suo debutto all’Arena di Verona i prossimi 22 e 30 luglio. Il movente: il rifiuto di essere associata a un’istituzione che, negli stessi giorni, mette in scena un problematico allestimento dell’Aida di Verdi: dorato e sontuoso che porta la firma di Franco Zeffirelli, con i multicolori costumi di Anna Anni e le coreografie di Vladimir Vasiliev. La tara di quest’ultimo risiede nella pratica di pittare di nero il volto della cantante bianca che dà voce alla principessa etiope, interpretata da Anna Netrebko. È stata immediata la deflagrazione delle polemiche nella platea mediatica italiana (e non solo) che sta demonizzando in queste ore il politically correct. Un fenomeno che esiste, con conseguenze opinabili in certe espressioni estremizzate, ma che in questo caso non è il nodo della questione. Davvero non ricorrere al trucco nero segnerebbe un tradimento delle intenzioni di Giuseppe Verdi?
I MINSTREL SHOW E I VARIETÀ RAZZISTI
Prima di liquidare il problema con l’abusata etichetta della cancel culture, occorre soffermarsi su una pratica che affonda le radici nell’Ottocento. È in quell’epoca che negli Stati Uniti, e successivamente in Gran Bretagna, dilagano i Minstrel Show e altri varietà in cui attori bianchi si tingono il volto con cerone nero, scimmiottando le comunità afroamericane. Non si trattava di satira, ma di siparietti stereotipati e violentemente caricaturali, in una congiuntura drammatica in cui, ricordiamolo, lo schiavismo e la deumanizzazione dei neri erano sanciti dalla legge americana. Simultaneamente, l’imperialismo europeo soggiogava popoli in Africa, Asia e non solo, in virtù di una presunta superiorità dell’uomo bianco che doveva diffondere la civiltà. Il blackface non si estinse con l’abolizione della schiavitù negli USA, ma sopravvisse in alcune sacche di resistenza, non ultimo in alcuni show televisivi che andarono in onda sino agli Anni Ottanta.
LA SVASTICA TRA RELIGIOSITÀ E NAZISMO
Può essere d’aiuto mettere a fuoco la genealogia di un altro simbolo come la svastica: nelle culture arcaiche indo-mediterranee alludeva a significati apotropaici, religiosi e spirituali (tuttora è diffusa in varie zone dell’Asia). Da quando è stata eletta a vessillo iconografico del nazismo, è difficile invocarla in Occidente prescindendo dalla stratificazione semantica razziale del secolo scorso. Esattamente come la svastica, indipendentemente dal suo significato originario, non può non rievocare il nazismo, dipingere la faccia di nero non può non rievocare oggi – anche involontariamente – un’usanza storica denigratoria come il blackface.
RIPENSARE I RITI E LE TRADIZIONI DEL PASSATO
Del resto, fioriscono negli ultimi anni i tentativi di rileggere o attualizzare le opere liriche in modo che possano risuonare con la sensibilità di uno spettatore contemporaneo. L’alterità di un personaggio in scena può essere oggi manifestata tramite diversi dispositivi e modalità. Perché non riusciamo a prescindere da un confronto così acritico con quella consuetudine teatrale secondo cui la pelle di Aida è sempre stata truccata di nero? Il rischio è quello di mortificare il repertorio classico in un “museo immaginario di lavori musicali”, come lo definisce la filosofa Lydia Goehr. Un museo in cui tutti ossequiano i grandi titoli del passato, osservandone rituali e tradizioni, senza riuscire a farli dialogare davvero come materia viva e attuale con un orizzonte etico ed estetico dai confini costantemente in divenire.
– Edoardo Pelligra
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