20 anni senza Giorgio Gaber: un ritratto del Signor G
Il 1° gennaio 2003 moriva il cantautore milanese che con il “teatro canzone” rivoluzionò la musica italiana. Un esempio purtroppo seguito solo da pochi coraggiosi artisti intellettuali. Per celebrarlo, la Fondazione a lui intitolata renderà disponibili in streaming per 24 ore, dalla mezzanotte del 1° gennaio, una serie di preziosi filmati
“Però mi fa un po’ schifo a saltellare dal fanatismo più feroce/ All’abbandono più totale/ e praticare nei salotti la tecnica più furbastra/ di fare a gara di chi è più a destra” (1981).
Dopo la tragedia della guerra e gli anni difficili della ricostruzione, nella seconda metà degli Anni Cinquanta l’Italia ritrova stabilità e un certo benessere che aumenta di anno in anno, si apre all’Europa e al mondo (leggasi Stati Uniti), ed è investita da un’ondata di frizzante modernità; sul momento non se ne colgono che gli aspetti positivi, e fra questi ci sono anche i ritmi che arrivano da oltreoceano sulle note di Gene Vincent, Bill Haley, Eddie Cochran: in quegli anni, il rock ‘n’ roll è un mélange di esuberanza giovanile, spensieratezza e voglia di vivere, e accende anche in Italia più di un entusiasmo.
GLI ESORDI DI GIORGIO GABER
Alla metà degli Anni Cinquanta, Genova e Milano rappresentano l’avanguardia musicale italiana, grazie a giovani artisti talentuosi come Adriano Celentano, Luigi Tenco, Enzo Jannacci, che segneranno la nascita del rock ‘n’ roll in Italia; su quell’asse artistico-geografico si muove anche Giorgio Gaber, all’anagrafe Giorgio Gaberščik (Milano, 1939 ‒ Montemagno di Camaiore, 2003), che esordisce come chitarrista dei Rock Boys, il primo gruppo di Celentano. La Milano dell’epoca offre “palestre” di primo piano quali l’Hot Club, la Taverna Messicana, il Cab 64 o il Santa Tecla. Dopo un EP per Dischi Ricordi (Ciao ti dirò è il primo brano di rock ‘n’ roll in lingua italiana), nel 1959 fonda I Due Corsari con l’amico Jannacci, che si distingue per i testi umoristici da cabaret, precursori del rock demenziale di venti anni dopo.
GABER FRA GENOVA E MILANO
Ma presto si avvertono urgenze artistiche ben più profonde, c’è voglia di mettersi in gioco con qualcosa di innovativo, e cioè creare della musica che sia insieme suono e letteratura. L’ispirazione arriva dagli chansonniers francesi, cui si cerca di unire il rock ‘n’ roll, ma anche e soprattutto il jazz, che si scopre più adatto per esprimere quelle atmosfere introverse e speculative proprie degli artisti non di maniera. Nasce una scena musicale impegnata, non schierata politicamente, ma dalla spiccata sensibilità umanistica, alla ricerca di note per raccontare la società che cambia; una ricerca che accomuna Gaber a Paoli, Endrigo, Bindi, Conte, Tenco e Jannacci. Dai testi di Gaber emerge una Milano crepuscolare, nebbiosa e un po’ amara, declinata in un poetico grigio, una città che ha dubbi, che cerca di resistere all’inesorabile avanzata del “miracolo economico” con le sue certezze, la sua alienazione e il suo materialismo, i suoi tentativi d’evasione. Appartengono a questi anni brani come Trani a gogò e La ballata del Cerutti, due ballate sui locali malfamati della Milano popolare dell’epoca, scritte con il drammaturgo e paroliere Umberto Simonetta.
GABER E IL TEATRO CANZONE
Già alla metà degli Anni Sessanta, il quadro cambia ancora; l’Italia è certamente diventata un Paese più ricco, ma l’individuo ha perso qualcosa, comincia la disgregazione della società: il consumismo è ormai ovunque imperante, mentre nelle periferie covano i germi della povertà e della solitudine, dell’emarginazione e della violenza. Con il decennio che avanza, cambia il volto della città, Milano è ormai una metropoli ingrigita e inquinata come tante altre, e Gaber racconta questo cambiamento nella celebre Com’è bella la città, paradossale e amara esaltazione delle sue luci menzognere. All’alba degli Anni Settanta inventa, insieme al pittore Sandro Luporini, il “teatro canzone”, forma di predicazione di un ideale vangelo laico in cui si fondono parola cantata e parola recitata, musica e monologhi, e da cui scaturisce una vivace narrazione di situazioni, personaggi e storie, che crea interazione quasi diretta con il pubblico, grazie a una sintassi vivace vicina alla lingua parlata al servizio di una prosa graffiante come quella di Céline, e animata da una recitazione cantata sulla scorta di Jacques Brel, cui è aggiunta una nota di estemporaneità. Gaber è quindi un artista-intellettuale che parla la lingua del popolo, ma confeziona testi eleganti e profondi. In mezzo a quella crescente ondata di rumori, violenza, volgarità, ostentazioni varie, Gaber si chiede come si senta l’individuo medio; e lo coglie mentre recita una conformistica parte in Far finta di essere sani, un album dalle atmosfere di smarrimento che in parte ricordano Bacon e Lucian Freud.
Il “teatro canzone” è una forma d’arte concepita come un impegno civile, e per la sua acuta analisi sociale non è poi troppo distante dall’immediatezza delle vignette che Giovannino Guareschi pubblicava su Candido. Questa svolta artistica implicò anche l’abbandono della televisione, in nome di un rapporto con il pubblico più diretto e autentico, e segnerà appunto i successivi trent’anni della carriera di Gaber.
IL SODALIZIO CON SANDRO LUPORINI
S’incontrano per caso in un bar milanese nel lontano 1956, si guardano, si parlano e diventano amici. Negli anni il sodalizio si stringe progressivamente, e fino al 2003 il pittore versiliese Sandro Luporini alterna la penna al pennello per collaborare alla stesura dei testi di Gaber, aggiungendovi una nota di spiazzante realismo esistenziale, quello stesso con cui ammanta le sue tele. Inoltre, è Luporini a coniare il termine “teatro canzone”, a proposito dello spettacolo Il Signor G, con cui appunto si apre la nuova stagione artistica del cantautore.
Ad accomunarli, una tenace fede nelle proprie idee, una mentalità aperta e una sobrietà di vita che li tiene sempre lontani dalla volgarità delle prime file. Insieme scrivono testi fra i più significativi della canzone italiana, sempre tenendo d’occhio la realtà sociale del Paese. Dalla metà degli Anni Settanta Gaber prende le distanze dal movimento della sinistra impegnata, che giudica troppo massificante; il cambiamento non può partire a livello della massa, bensì dal singolo individuo. Perché è vero che la forza sta nella massa, ma, quando è composta di individui senza personalità, allora perde anche quella forza che avrebbe potuto avere.
Gaber e Luporini parlano di politica, di libertà, di amore, persino di genitorialità, sempre assumendo l’individuo come misura del loro ragionamento, nel senso ampio e profondo in cui lo intendevano i filosofi greci. E criticano il conformismo nella speranza che il libero arbitrio diventi il faro della nuova società. Che però qualcosa sia andato storto lo ammette lo stesso Gaber quando, nel 2001, pubblica un album dall’emblematico titolo La mia generazione ha perso; un ritratto in dodici canzoni del malcostume della società moderna, o meglio del malcostume della vecchia società che la nuova non è riuscita a estirpare; si può perdere per tante ragioni, perché l’avversario è più forte, certo, ma soprattutto si perde per pigrizia e malafede, si perde perché ci si adagia nel conformismo e si rinuncia a lottare.
L’EREDITÀ DI GIORGIO GABER
In memoria di Gaber sono nati una Fondazione e un Festival con la missione di diffondere la conoscenza del suo repertorio fra le nuove generazioni di artisti, ma soprattutto di collaborare con le scuole, parlando agli studenti della musica e del pensiero di Gaber, elementi necessari se non indispensabili per imparare l’importanza del pensiero critico, il rifiuto delle certezze assolute, l’educazione e l’onestà intellettuale.
Sotto l’aspetto di una possibile continuazione della sua idea di musica e di cantautore, di un artista che si cimenti con il “teatro canzone” in maniera originale, Anna Maria Castelli sembra la più interessante. È infatti l’interprete di Se io ho perso… chi ha vinto?, scritto da Abner Rossi e Mario Berlinguer, maturo spettacolo di critica verso l’arroganza di una società massificata, nonché primo esempio del genere dalla scomparsa di Gaber. Un’eredità non facile da raccogliere, ma di cui qualcuno ha avuto il coraggio di farsi carico.
Niccolò Lucarelli
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