Arte e musica. Il metal “atmosferico” di Sylvaine
Un ritratto della polistrumentista norvegese di atmospheric metal Kathrine Shepard, in arte Sylvaine, nome che fonde la vicinanza al mondo naturale con la passione per Verlaine. L’intervista
Sylvaine è il nome d’arte della compositrice e polistrumentista Kathrine Shepard (San Diego, 1991). Nata in California da padre americano, batterista professionista, e madre norvegese, organizzatrice di concerti e promoter, si trasferisce con la famiglia quando ha solo un anno a Oslo, in Norvegia – che considera il suo Paese – dove cresce, si laurea in musicologia e intraprende una formazione vocale classica. Suona chitarra, basso, piano e sintetizzatori.
Nel 2013 crea il suo progetto solista Sylvaine, nome ispirato dalla parola norvegese “sylvan” (che significa “foresta”) e dal cognome del poeta francese Paul Verlaine, sua grande passione, con sonorità vicine al post metal (o come preferisce definirlo lei, “atmospheric metal”), al blackgaze e al post rock. Le sue canzoni nascono su chitarra elettrica unplugged in intimità, affrontando tematiche spirituali e di dualismo tra luce e oscurità, serenità e caos, fungendo da catarsi emotiva per l’artista che aspira all’eternità dell’universo. Al primo album autoprodotto, Silent Chamber, Noisy Heart (2014), segue Parigi, dove scrive il secondo album Wistful (2016) e ospita alla batteria Neige, leader della formazione post-black metal francese Alceist. Ma è con il suo terzo album, Atoms Aligned, Coming Undone (2018), che Sylvaine vince la nomination ai Norwegian Grammy Awards come miglior metal album: è la prima volta che una donna vince in questa categoria.
Nel 2022 pubblica l’album Nova, ispirato ai concetti di perdita, dolore, fugacità della vita, e soprattutto rinascita, dove canta in una lingua immaginaria nel suggestivo brano corale di apertura che dà titolo all’album, e ospita musicisti di formazione classica toccando sonorità orchestrali. L’album viene rinominato nella rosa dei migliori atti metal ai Norvegian Grammy Awards, anche se non vince il premio.
Rifuggendo da etichette di stile musicale, il futuro di Sylvaine sembra costruirsi attorno a pagane melodie atemporali rivolte al cielo e alla natura, aspirazione tradotta in immagine sulla copertina di Nova, dove l’artista mostra il suo candido corpo nudo, rannicchiato in posizione quasi fetale e circondato da lunghissimi capelli biondi, che riportano alla purezza delle origini.
Intervista a Sylvaine
La tua definizione di arte.
L’arte è emozione. L’arte è libertà. L’arte è comunicazione oltre le parole, oltre i confini, oltre le differenze. L’arte è ineluttabilmente umana, eppure è un’ancora di salvezza che ci collega a ciò che sta al di là di questa esistenza umana. Si potrebbe anche dire che l’arte è vita. È qualcosa di cui non possiamo fare a meno, in una forma o nell’altra.
La tua definizione di musica.
La musica è il linguaggio universale delle emozioni, una delle forme d’arte più potenti proprio per questo motivo. Ha la capacità di avvicinare gli esseri umani in un modo incredibilmente unico e magico.
Ti definisci un’“artista”?
Ho una sensazione contrastante riguardo al modo in cui la parola “artista” può essere usata, a volte per separare le persone e creare una sorta di classe “elitaria”. Sì, certo, mi considero un’artista perché ho bisogno di creare nella mia vita per sentirmi me stessa, per elaborare le mie emozioni più intime, per sentirmi viva. Ma non voglio usare questa parola per darmi un’etichetta che potrebbe creare una distanza negativa tra me e chi non ha questo bisogno di creare.
L’opera di arte visiva che più ami.
L’arte visiva è sempre stata una fonte di grande ispirazione per me, quindi è impossibile scegliere una sola opera d’arte come mia preferita. Tra gli artisti preferiti ci sono Arthur Rackham, John William Waterhouse, Kay Nielsen, Yoshitaka Amano, Edmund Dulac, Yayu, Julia Margaret Cameron, Aubrey Beardsley, Alphonse Mucha, Lucien Lévy-Dhurmer, Gustav Doré, Miles Johnston, John Bauer, Toshiaki Kato, Henrik Aarestad Uldalen, Takato Yamamoto, Gustav Klimt, Ayami Kojima… Potrei continuare a lungo, visto che amo molto le arti visive, ma mi fermerò qui.
La canzone che più ami.
Come sopra, è impossibile scegliere una sola canzone. Penso a Any Other Name di Thomas Newman, Anesthesia dei Type O Negative, Apalachee di Goldmund, Hide and Seek di Imogene Heap, Carry Me Home dei 40 Watt Sun, Opening da Glassworks di Philip Glass, Stripped dei Depeche Mode, Carrion Flower di Chelsea Wolfe, Falling Ashes degli Slowdive, Non-eternal di Max Richter, Apotheosis dalla OST di Journey di Austin Wintory, The Four Horsemen degli Aphrodite’s Child… Beh, sicuramente ho dimenticato un milione di canzoni, ma queste sono quelle che amo veramente e che mi vengono in mente in questo momento.
I tuoi recenti progetti.
Sto lavorando a un nuovo progetto che vedrà la luce all’inizio del 2024. Ci sono anche altri progetti di collaborazione con ospiti, ma al momento non posso rivelare ancora nulla.
Un ricordo della tua vita.
Quando ero adolescente, ho frequentato un liceo musicale, dato che qui in Norvegia possiamo decidere di specializzarci già a partire dalle scuole superiori. Nel nostro dipartimento di musica, tutti gli studenti dovevano partecipare a un pranzo-concerto come parte delle lezioni di strumento: decisi di cantare la versione di Eva Cassidy dello standard jazz Autumn Leaves. Avendo cantato a malapena per me stessa, dato che all’epoca ero incredibilmente timida con la mia voce, ero assolutamente terrorizzata di salire sul palco quel pomeriggio: chiusi gli occhi e iniziai a cantare, cercando di concentrarmi sull’emozione della canzone e di trasmetterla al meglio. La sala rimase completamente in silenzio. Quella è stata la prima volta nella mia vita in cui ho sperimentato veramente il potere della performance e come con la mia voce potessi fermare e attirare la loro completa attenzione. È stato un momento incredibilmente potente per me, ho capito che non volevo altro che continuare a farlo, fino alla fine dei miei giorni.
Samantha Stella
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