Musica: 30 anni di The Division Bell, il ritorno dei Pink Floyd più classici
Accolto dalla critica con giudizi poco benevoli, è stato rivalutato nel tempo ed è oggi considerato uno dei migliori album del gruppo. Sospeso fra le rotture del passato e le domande sul futuro, The Division Bell è solare e introspettivo insieme. Con un ammonimento sul futuro della Terra
Pubblicato il 28 marzo 1994 in Gran Bretagna, e il 4 aprile (il giorno prima del suicidio di Kurt Cobain) negli USA, l’album incontrò subito il gradimento del pubblico, ma non quello della critica, cui a volte piace porsi in contrapposizione per dimostrare indipendenza dai gusti del pubblico. Fra le recensioni più negative, quella di Tom Sinclair per Entertainment Weekly del 22 aprile 1994, secondo cui “la cupidigia è l’unica spiegazione plausibile per la pubblicazione di un album così vacuo ed inutile, notevole solo per la sua pomposità di rock progressivo e le sonorità new age da voltastomaco”. Una supponenza che i fatti avrebbero ben presto demolita, sia perché è evidente il ritorno a una matrice sonora delle suites tipiche dei Pink Floyd degli anni Settanta, sia perché, anche semplicemente leggendo i testi, vi si riscontrano lirismo e profondità.
The Division Bell: il peso del passato
Registrato in parte negli storici Britannia Row Studios di Islington tra febbraio e dicembre del 1993, l’album segna il ritorno del gruppo alle sue abituali pratiche compositive, facendo confluire varie suggestioni sonore in un’unica sequenza su cui lavorare per l’opera finale. Il risultato sono atmosfere musicali e concettuali che ricordano da vicino quelle di Wish you were here (anche se a un livello leggermente inferiore), incentrate in gran parte sull’incomunicabilità fra le persone. Il titolo rimanda ai rintocchi della Division Bell (campana della divisione) suonata al Parlamento britannico prima di ogni votazione, un atto che presuppone una precisa scelta di campo. Il richiamo è a quelle scelte che si compiono nella vita, e che molto spesso hanno conseguenze su noi stessi e su quanti ci circondano.
Nel complesso, l’album solare, appena venato di tinte nostalgiche, dove il gruppo, in particolare David Gilmour, guarda indietro alle difficoltà umane del passato, ma volge lo sguardo anche al futuro, con alcuni interessanti interrogativi. Fra i più pressanti, quello di What do you want from me, brano emblematico già nel titolo della difficoltà delle relazioni interpersonali, anche interne al gruppo, e nonostante le negazioni di Gilmour, è difficile pensare che, almeno a livello inconscio, non abbiano esercitato il loro peso le tumultuose vicende di Syd Barrett prima e Roger Waters poi. Proprio al “diamante pazzo” e all’ex bassista sembra riferirsi ancor più specificamente Poles apart, ed emerge tutta l’amarezza per la traumatica uscita dal gruppo dei due musicisti, di tanti anni prima. Con oestà, Gilmour si addossa anche la sua parte di colpa nella vicenda, anche se la sua empatia va soprattutto a Barrett.
The Division Bell ha anche una vena più sentimentale, nei vari riferimenti sparsi fra i brani a Polly Samson, nuova compagna di Gilmour che lo aveva salvato dalla depressione e alla quale dedica uno specifico ringraziamento nella vibrante Coming back to Life, caratterizzata da un blueseggiante assolo di chitarra elettrica.
The Division Bell: uno sguardo al futuro
La caduta del muro di Berlino, appena cinque anni addietro, aveva suscitato entusiasmo e speranze, ma a distanza di tempo sorgono anche i primi interrogativi su quale futuro geopolitico attende l’Europa. In A great Day For Freedom, Gilmour si chiedeva se dopo essere finalmente usciti dall’incubo di quasi mezzo secolo di oppressione comunista, i Paesi est-europei abbiano veramente trovata la democrazia e la libertà; secondo l’autore, il cammino sarebbe stato ancora lungo, perché la storia, come dichiarò in quei giorni, “si muove ad un ritmo molto più lento di quello che noi pensiamo”. Per riequlibrare le sofferenze causate dalla storia sarebbe occorso tempo, come scrisse in questa strofa: “Now frontiers shift like desert sands // While nations wash their bloodied hands // Of loyalty, of history // In shades of grey”.
Tutto sommato, anche le recenti vicende europee, dai Balcani all’Ucraina, sembrano avvalorare la sua opinione.
Un altro brano dell’album che s’interroga sul futuro dell’umanità, anche se da un differente punto di vista, è Take it Back. Pur nella poetica metafora di una relazione sentimentale, il brano tratta del rapporto dell’individuo con la natura, e già all’epoca mette in guardia sul rischio di epidemie e catastrofi naturali che si sarebbero presentati con sempre maggiore frequenza e violenza, a causa dell’eccesso sfruttamento dell’ecosistema e dell’inquinamento. La Natura infatti, ammonisce Gilmour, potrebbe un giorno riprendersi quanto sta donando all’umanità in termini di risorse e condizioni di vita sulla terra. A metà del brano, in sottofondo, si percepiscono le strofe della macabra filastrocca secentesca, Ring-A-Ring-A-Roses, che una teoria interpretativa riferisce all’epidemia di peste che falcidiò la Gran Bretagna nel XVII Secolo. Un monito contro il rischio delle future epidemie che Gilmour immaginava persino più gravi, vista la sconsideratezza con cui l’umanità manipolava e manipola l’ecosistema.
Quindi, in definitiva, l’avvicinarsi o l’allontanarsi dalle persone, l’avvicinarsi o l’allontanarsi dalla natura, l’essere liberi o sottomesi, sono in definitiva questioni di scelte.
Come spesso accade con le copertine degli album dei Pink Floyd, anche questa è un’opera di arte grafica; autore, l’ormai storico collaboratore Storm Thorgerson (prematuramente scomparso nel 2013), che ispirandosi alla composizione della copertina del libro The Human Use of Human Beings, scritto nel 1950 dal matematico statunitense Norbert Wiener, creò una composizione con due grandi teste in metallo (vagamente simili a quelle dell’Isola di Pasqua), posizionandole in aperta campagna nei pressi della cattedrale di Ely, nella contea del Cambridgeshire. Se viste frontalmente, le due sculture formano, per il fenomeno ottico della pareidolia, un terzo volto. Realizzate da John Robertson, sono oggi conservate nella Rock and Roll Hall of Fame a Cleveland, in Ohio.
Un’atmosfera sospesa, la calma prima della tempesta, due volti che si fronteggiano minacciosi, il contrasto cromatico fra uno spento giallo e un altrettanto spento blu; tutto simboleggia la tensione di una scelta, l’angoscioso abbraccio del rimorso, il cauto guardare al futuro.
Niccolò Lucarelli
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