È morto Maurizio Pollini, il gigante del pianoforte
Tra i più grandi musicisti del nostro tempo e fervido intellettuale dal taglio analitico e transdisciplinare, il maestro aveva da poco compiuto 82 anni. Il ricordo di Carmelo Di Gennaro
Con la scomparsa di Maurizio Pollini, avvenuta il 23 marzo a Milano all’età di 82 anni, viene a mancare non solo uno dei più grandi musicisti del nostro tempo, ma anche e soprattutto un intellettuale che aveva sempre operato – negli ultimi sessant’anni – per restituire al fatto culturale la centralità che dovrebbe sempre avere e che invece rimane costantemente sepolta sotto mille inutili orpelli.Poi, ovviamente, c’è il fatto puramente musicale e se ci si limita (per così dire) a questo, si può dire che si sta parlando di un autentico gigante del pianoforte, di uno degli interpreti più significativi (e rivoluzionari) degli ultimi cinquant’anni.
Maurizio Pollini, i primi successi e lo studio di Chopin
Sin dalla vittoria, nel lontano 1960, del Primo Premio al Concorso “Chopin” di Varsavia (il più prestigioso di tutti, allora come oggi), Maurizio Pollini aveva dimostrato non solo di possedere, appena diciottenne, una tecnica pianistica sbalorditiva – narra un aneddoto apocrifo che Arthur Rubinstein, presidente di quella giuria, dopo averlo ascoltato disse: “Per la maturità nell’esecuzione, è senza ombra di dubbio il migliore di tutti”- ma anche una altrettanto insolita profondità interpretativa, iniziando da allora uno scavo analitico sulla gigantesca figura di Chopin, che è proseguito per tutta la vita. Grazie a Pollini, dalla percezione di un compositore “salottiero”, perfetto per l’educazione musicale delle signorine di buona famiglia (un cliché del quale si fa eco anche Proust nella Recherche, non a caso autore amatissimo dal pianista milanese), si passa alla considerazione della autentica statura di un genio come Chopin, compositore di una modernità sbalorditiva, le cui creazioni musicali venivano definite dallo stesso Pollini “un miracolo”. Tutto ciò poteva avvenire grazie a un suono sempre terso, pulito ma corposo, capace di scolpire nel marmo non una singola frase, ma proprio l’architettura intera di ogni pezzo. A sua volta, Pollini era figlio di un grande architetto (Gino) e nipote di un magnifico scultore come Fausto Melotti; era evidentemente innato in lui il senso della forma, che non l’ha mai abbandonato, una forma che egli riempiva di contenuti musicali a volte anche inauditi, accompagnando l’ascoltatore verso percorsi di inedita bellezza.
Pollini e lo studio della musica del presente
Dopo il grande successo al concorso Chopin, contrariamente a quel che poteva pensarsi, Pollini non intraprese subito la carriera del solista, ma decise di ritirarsi per qualche tempo a studiare ed approfondire il proprio repertorio, senza dimenticarsi della musica del suo (nostro) tempo. Dunque, il pianista milanese si ripresenta “in società” solo all’inizio degli anni Settanta con un disco che è tutta una dichiarazione di intenzioni: la virtuosistica Sonata n. 7 di Prokof’ev, le diafane Variazioni op. 27 di Anton Webern, i percussivi Tre Movimenti da Petrouchka di Stravinskij e la Sonata n. 2 di Pierre Boulez, uno dei pezzi tecnicamente (e musicalmente) più complessi del secondo Novecento (chi scrive ricorda di avergliela ascoltata eseguire alla Scala di Milano verso la fine degli anni Novanta a memoria!). Pollini ha chiaro sin da subito che per eseguire la musica del passato bisogna confrontarsi con quella del presente; così – caso più unico che raro per i virtuosi del suo calibro – accanto a Beethoven, Schumann, Schubert, Brahms, nei suoi interessi (e nei suoi programmi) appaiono Luigi Nono, Giacomo Manzoni, Salvatore Sciarrino, Karlheinz Stockhausen, oltre al già citato Boulez.
Iniziarono a quel tempo (gli anni Settanta) anche i concerti nelle fabbriche, assieme all’amico e sodale Claudio Abbado, di fronte a platee di operai attoniti che però, grazie al suo carisma d’interprete, ascoltavano in religioso silenzio pezzi quali Como una ola de fuerza y luz di Nono, un lavoro complesso e straordinario, creato da Nono proprio perché esisteva un musicista come lui. Allo stesso modo, Manzoni scrisse per lui nel 1977, Masse. Omaggio a Edgard Varèse e Sciarrino – molti anni dopo – coniò la sua bellissima V Sonata per pianoforte, che gli ascoltai eseguire in un memorabile concerto a Lucerna (1994), assieme ai Tre Movimenti da Petrouchka di Stravinskij.
In un crescendo intellettuale inarrestabile, fatto di una profonda riflessione anche sul modo di produrre e fruire la cultura musicale (non a caso, verso i primi 2000, si cimenterà anche come organizzatore dentro il Festival di Salisburgo col suo Progetto Pollini, nel quale mischiava la musica di Gesualdo e Monteverdi con nuove composizioni di Manzoni, Donatoni, Sciarrino e Berio da lui commissionate), il pianista milanese inizia ad eseguire con continuità dal vivo la musica pianistica di Schönberg (che registrerà con esiti inarrivabili), altro musicista che lo accompagnerà per tutta la vita. Nel suo ultimo concerto madrileno (dicembre 2021), Pollini riuscì a tenere la platea col fiato sospeso eseguendo i Tre pezzi op. 11 del maestro austriaco, resi in una temperie crepuscolare che ben si adattava al suo già fragile stato fisico. Tra l’altro, mi si permetta il ricordo personale, il giorno dopo il suo concerto volle che lo accompagnassi al Prado, dove rivedemmo assieme Las Meninas di Velazquez e las Pinturas negras di Goya; davanti a quest’ultimo capolavoro, Pollini rimase in religioso silenzio per quasi mezz’ora.
Pollini, la consacrazione mondiale e l’amore per Beethoven
Negli primissimi anni Ottanta arriva la consacrazione universale, il riconoscimento unanime e indiscutibile di tutto il mondo musicale: fioccano gli inviti sui palcoscenici più prestigiosi del mondo (Vienna, Berlino, Parigi, Londra, New York, Chicago, Tokyo) da solo o in compagnia delle orchestre più prestigiose del pianeta (le Filarmoniche di Vienna e Berlino, la Chicago Symphony, la New York Symphony, l’Orchestre de Paris, per citarne solo alcune), ma Pollini non perde mai la bussola del suo discorso intellettuale, che rimane di una coerenza implacabile. Il suo repertorio si va ampliando poco a poco, senza perdere mai di vista una interna coerenza, ossia quella di cercare di restituire alla musica del passato la forza dirompente che ebbe a suo tempo, forza che oggi rimane spesso sepolta sotto la coltre del convenzionale e della routine interpretativa. Non a caso, chi meglio di lui è stato capace di dimostrare musicalmente quella sorta di “violenza e odio” (come scrisse da Thomas Mann) che Beethoven dimostra verso la forma arcaica della Fuga nell’ultimo movimento della monumentale Sonata op. 106 “Hammerklavier”? Nessuno, davvero nessuno. Chi fu capace, meglio di lui, di associare in maniera impeccabilmente logica, con un sottile ma resistente filo rosso, gli ultimi lavori pianistici di Brahms (op. 117, 118 e 119) a quelli di Schönberg, passando per gli estremi capolavori di Franz Liszt? Nessuno, davvero nessuno. Chi fu capace di dimostrare, meglio di lui, le assonanze tra la musica di Debussy e quella di Boulez in modo così sottilmente analitico? Nessuno, davvero nessuno.
Oltre a Chopin, se c’è un altro compositore al quale è associato in modo imperituro il nome di Pollini è Beethoven; le sue integrali delle Sonate del genio di Bonn, eseguite verso la fine degli anni Novanta tra Milano, Parigi, Londra, Berlino, Monaco di Baviera, Tokyo e New York, hanno marcato un prima e un dopo nella storia dell’interpretazione. Debitore in qualche modo della lezione del grande pianista Arthur Schnabel, uno dei primi ad eseguire l’integrale beethoveniana (e ad inciderla), Pollini si svincolava dall’eredità del suo grande precursore grazie a una lettura di straordinaria modernità, nella quale aveva modo di emergere la natura rivoluzionaria di Beethoven sin dai primi anni di gioventù, quando invece sembrava che fosse l’aspetto più salottiero (quasi cortigiano) a primeggiare. Pollini dimostrò con le sue esecuzioni che in Beethoven sin da subito erano chiari i germi della dissoluzione controllata del sonatismo classico, proprio grazie all’introduzione misurata, ma costante, di elementi formali dirompenti (il pedale di risonanza, così scrupolosamente indicato, tutte le indicazioni puntualissime di tempo e di velocità d’esecuzione), capaci a lungo andare di usurare e quasi rompere la struttura portante del pezzo. Accanto al suo Beethoven, al suo Chopin, va messo certamente anche Schumann, anch’egli indagato con continuità nel corso di molti decenni; dalla Fantasia op. 17, pezzo amatissimo, all’Arabesque op. 18, dalla Sonata op. 11 (una lettura ancora oggi inarrivabile) agli estremi Gesänge der Frühe op. 133, passando per Kreisleriana e i Davidsbündlertänze. Sotto le sue dita, Schumann rivelava in tutta la sua forza quell’estetica visionaria che ne fece un autentico poeta del pianoforte; qui l’accusa di freddezza analitica, sovente rivolta a Pollini, perdeva ogni senso di fronte a letture al calor bianc, come quella della già citata Sonata op. 11 o del Concerto senza orchestra op. 14, pezzo in generale poco eseguito dai virtuosi.
Pollini e l’analisi culturale della musica
Ogni concerto di Pollini, ebbi modo di scrivere tanti anni fa, era una sorta di lezione universitaria del massimo livello, però spogliata da ogni aspetto meramente retorico, per diventare invece un palpitante esercizio di cuore e ragione; dico questo non a caso, perché, come si accennava sopra, per anni Pollini fu accusato di essere un pianista “freddo”. Per lui, il testo (la partitura) era la base imprescindibile da cui partire, ma il testo nella sua purezza filologica (magistrale, per esempio, la sua interpretazione degli Studi Sinfonici di Schumann, per la prima volta registrati in maniera integrale), cercando dunque proprio nel testo – e non nella stratificazione interpretativa, di cui pure Pollini era perfettamente cosciente – le ragioni della sua importanza storica; il suo lavoro di interprete non si limitava ovviamente a una pura “decrittazione” del geroglifico musicale, bensì in un esercizio di analisi culturale, dove entravano in pieno le ragioni anche extramusicali di ogni composizione, misurate nel contesto storico e sociale. Come diceva Adorno, ogni opera d’arte si fa “res” nello spazio e nel tempo: questa è stata la magistrale lezione del grande pianista milanese.
Fin qui, l’artista, la cui statura incommensurabile non può certo limitarsi ad essere contenuta in questi rapidi accenni scritti a caldo; poi c’era l’uomo Pollini. Schivo e riservato per natura, timido sin quasi all’eccesso, Maurizio era in realtà, come i suoi amici sanno bene, una persona piena di spirito, dalla battuta fulminante, amante del buon vino e della buona tavola. La conversazione con lui, una volta rotta quella barriera di timidezza, era fluida e divertente; solo quando si parlava di musica, Maurizio si prendeva sempre un lungo minuto prima di parlare o di rispondere a una domanda (se era un’intervista, qualcosa che non amava fare), proprio per essere certo di esprimere al meglio il suo pensiero. Maurizio lascia, oltre a legioni di ammiratori in tutto il mondo, la compagna di una vita, Marilisa e il figlio Daniele, anch’egli pianista e compositore; ma soprattutto, per fortuna, lascia moltissime testimonianze discografiche le quali, nonostante l’indubitabile, straordinaria eccellenza, in alcuni casi sono la pallida copia degli indimenticabili concerti dal vivo, nei quali si sprigionava appieno la potenza del suo genio.
Carmelo Di Gennaro
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati