È un contributo all’umanità il nuovo album della compositrice e producer Johanna Elina Sulkunen. L’intervista

Capitolo finale di una trilogia attraverso cui l’artista finlandese sperimenta i diversi livelli di risonanza della voce “Coexistence” parla di temi universali come la felicità, la casa e la corporeità

Può l’esperienza dell’ascolto insegnarci a pensare diversamente? Questa è la domanda che sta alla base di Coexistence, il nuovo album della compositrice e producer finlandese Johanna Elina Sulkunen uscito lo scorso 24 maggio. Si tratta del capitolo finale di una trilogia, partita con Koan e proseguita con Terra, in cui le sperimentazioni sulla voce l’hanno spinta a confrontarsi sui diversi livelli di risonanza. Partita con un progetto molto intimo (Koan), è passata al confronto con il mondo naturale (Terra) per approdare a quello sociale (Coexistence), investigando lo spazio liminale in cui si collocano tutte le persone che vivono ai margini, dagli homeless ai rifugiati. Il risultato è un album che artisticamente rappresenta un contributo all’umanità, dove la sua voce funge da piattaforma per accogliere quella altrui, esplorando l’importanza di temi universali come la felicità, la casa e la corporeità. Ecco cosa ci siamo fatti raccontare da Johanna Elina Sulkunen.

L’intervista a Johanna Elina Sulkunen sul nuovo album “Coexistence”

Hai affermato di utilizzare la voce come uno strumento. Che cosa significa esattamente?
Sono interessata a esplorare le innumerevoli possibilità della voce, principalmente la risonanza. Questo è il motivo per cui il mio progetto si chiama Sonority. Pratico la meditazione e presto attenzione a come risuona nel corpo. È un approccio molto intimo che entra in relazione col cervello e con i corpi stessi delle persone, perché la voce la utilizziamo anche come medium per comunicare.

In questo progetto per la prima volta, rispetto ai due album precedenti della Trilogia, che sono Koan Terra, ti sei aperta all’utilizzo di altre voci. Quali sono stati i criteri per cercare e scegliere le persone che hai coinvolto?
Il concetto alla base di Coexistence era investigare lo spazio sonoro in cui tutti siamo immersi in maniera eguale, anche se spesso viviamo in realtà molto differenti. Ne facciamo esperienza quotidianamente, condividendo le strade con gli homeless, per esempio. Volevo raggiungere queste persone, che spesso non vediamo, e indagare lo spazio liminale in cui vivono, raccontando le loro storie. Dove si collocano nella società, cosa fanno? Le prime persone con cui sono entrata in contatto sono state prevalentemente rifugiati e homeless, persone che non appartengono a nessun luogo. La mia prima intervista è stata con una rifugiata siriana, che mi ha subito fatto notare quanto la mia posizione e il mio sguardo fossero stigmatizzanti, perché lei non voleva rispondere per l’ennesima volta a domande che appiattivano la sua identità personale su quella di rifugiata. In quel momento ho capito che dovevo cambiare approccio, che così facendo aumentavo il divario che ci separava. Per cui ho lasciato che emergessero dei temi più universali. Lei ha scelto di parlare della felicità, anziché della sua posizione nella società.

Dove e come hai registrato le voci?
La maggior parte le ho registrate nelle strade di Copenaghen. Alcune in delle case, altre in luoghi diversi, anche in Finlandia. Mi sono però concentrata sulla strada, utilizzando il field recording per entrare maggiormente in contatto con la realtà.

Perché in questo capitolo finale ti sei concentrata sulle voci in relazione?
Koan è stato un album molto intimo, dove ho utilizzato solo la mia voce, per indagarla appunto come strumento. La focalizzazione era sull’interno, sull’interiorità. Con Terra ho cercato di aprirmi verso l’esterno, considerando l’ambiente. Mi interessava esplorare la risonanza tra l’essere umano e soprattutto il mondo naturale. Ho utilizzato molti campioni della neve e del ghiaccio, per esempio. Coexistence indaga la società in cui viviamo. Volevo espandermi in questa direzione, quindi si tratta nel complesso di un lavoro che ha un movimento che dall’interno va verso l’esterno, che si concentra su questi tre livelli e che ora, a conclusione del percorso, mi ha portato a desiderare di riportare l’attenzione verso me stessa. 

Come si differenzia la tua voce da quelle degli altri nell’album?
Prima di tutto dal fatto che non parlo. Utilizzo la voce esclusivamente come suono, facendola diventare una sorta di piattaforma per accogliere quelle altrui.

Il deep listening fa parte del tuo approccio oppure è un risultato?
Credo che sia un risultato. Ma è stata anche un’esperienza che ho vissuto in Giappone, quando stavo realizzando il primo album. Mentre camminavo da sola con le mie cuffie cercando di registrare qualsiasi suono, ho avuto la percezione che tutto, ogni rumore, suonasse come la musica. Le automobili, il vento…Così ho abbracciato questa sorta di deep listening experience che è avvenuta in maniera molto spontanea. Sicuramente sono molto interessata a scoprire gli effetti dei suoni sul nostro cervello e sullo stato mentale.

Carlotta Petracci

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Carlotta Petracci

Carlotta Petracci

Sempre in bilico tra arte e comunicazione, fonda nel 2007 White, un'agenzia dal taglio editoriale, focalizzata sulla produzione di contenuti verbo-visivi, realizzando negli anni diversi progetti: dai magazine ai documentari. Parallelamente all'attività professionale svolge un lavoro di ricerca sull'immagine prestando…

Scopri di più