La musica e l’arte contemporanea al MACRO di Roma. Intervista al direttore Luca Lo Pinto
Oggi l’arte ha nuovi campi di indagine, dove il corpo o il suono rappresentano le nuove sfide da affrontare. Volevamo saperne di più e abbiamo fatto qualche domanda a Luca Lo Pinto, direttore e ideatore della sezione Musica da Camera al museo d'arte contemporanea romano
La musica sembra lentamente smarcarsi dal ruolo ancillare in cui la sfera artistico-culturale l’ha spesso relegata, attribuendole la funzione di accompagnamento di altre forme artistiche o – peggio – di mero intrattenimento.
Alla luce di queste considerazioni, abbiamo voluto approfondire la visione e gli intenti che si muovono dietro la sezione Musica da Camera del MACRO di Roma, rubrica fissa e coraggiosa, parte del progetto curatoriale del direttore Luca Lo Pinto. Un’esperienza innovativa: sia sotto il profilo dell’ascolto all’interno di un cubo nero (dove si perdono le coordinate spaziali predisponendosi all’abbandono), sia per quanto riguarda la volontà di ricerca di affiancare a figure dimenticate (o poco note ai più) della musica d’avanguardia e sperimentale (ricordiamo che fino al 25 agosto è possibile visitare HYbr:ID, la mostra dedicata all’artista e compositore tedesco Alva Noto). Un’iniziativa che spinge anche a considerare delle problematiche concrete (e politiche) riguardanti tanto la fruizione quanto la qualità del suono.
Intervista a Luca Lo Pinto direttore del Museo MACRO di Roma
Musica da Camera è la rubrica fissa dedicata alla musica che trova spazio all’interno del MACRO, rientrando a pieno titolo nel tuo progetto curatoriale pensato come una rivista. Una scelta innovativa e ambiziosa per un museo…
Sì, soprattutto perché si tratta di musica d’avanguardia e sperimentale collocata sullo stesso piano delle altre arti. Non volevo confinarmi nella sound art, anche se può avere delle tangenze con la musica sperimentale, perché è un tipo di definizione che sarebbe stata respinta da alcuni musicisti.
Come è nata questa scelta?
Includere la musica è stata una scelta dettata dalla riflessione sul ruolo episodico che occupa all’interno delle istituzioni artistico-culturali, dove appare più sotto forma di eventi e senza una grande coerenza da parte dei musei nel trattarla. Prima di tutto perché manca la conoscenza approfondita su questa forma d’arte. Anche se ci sono alcuni casi di rilievo che dimostrano il contrario, come quello di Andrea Lissoni all’Haus Der Kunst.
Quindi tutto parte da una necessità personale?
Dalla passione che ho sempre avuto, sin dai tempi in cui studiavo. Il desiderio è stato portare dentro a un’istituzione anche un mondo di ossessioni e interessi personali che pensavo necessitasse di spazio all’interno di un contesto museale, che non è nato per queste arti. Anche se la peculiarità di un museo di arte contemporanea dovrebbe essere esporre, studiare, eventualmente conservare e archiviare tutte le ricerche portate avanti oggi che non si traducono necessariamente in un oggetto fisico, ma che possono riguardare il corpo o appunto il sonoro. Quindi ho pensato che sarebbe stato bello presentare un focus sulla musica, senza però incorrere nell’appropriazione da parte del mondo dell’arte. Il fatto che si trattasse solo di musica registrata è stata la prima scelta di campo importante. Volevo ottenere un focus molto ricercato sull’ascolto, rapportandomi al suono con lo stesso rigore con cui mi sarei rapportato a un quadro.
La musica nel Museo di Luca Lo Pinto
Come deve essere il livello del suono?
Non eccessivamente alto, come nel caso del punk, ma giusto, adatto al pubblico e alla fruizione di un museo. Ricordo a questo proposito due signore, che avevano visto la mostra di Natalie Du Pasquier, che entrate nella stanza rimasero a lungo ad ascoltare. Credo abbia una rilevanza politica per un museo riuscire a creare questi incontri, consentire a delle persone di conoscere forme d’arte e artisti che non avrebbero mai incrociato nelle loro traiettorie. È stato sin dall’inizio un aspetto importante per me riuscire a creare dei ponti tra un pubblico di non addetti o appassionati e un certo tipo di ricerche. Così come rispetto alla programmazione è stato cruciale scegliere delle figure storiche affiancandole ad artisti più recenti.
Come avviene nelle mostre…
Esattamente, sin dall’inizio l’idea era di fare delle mostre, con una durata precisa e una selezione della musica analoga a quella delle opere. Dando spazio a musica registrata, label e musicisti e alternando contributi storici e recenti. Mi piace quando i pubblici si incrociano, perché magari chi conosce Luigi Nono, che ha una certa età, non conosce Senni o non sa chi è Fatima Al Qadiri. Analogamente chi sta troppo dentro al contemporaneo e conosce gli artisti del momento magari non ha mai sentito le composizioni di Luigi Nono, che sono pazzesche e contemporanee quanto, se non di più, molte cose che ci sono oggi. La conformazione era questa, con la volontà di trattare il suono con lo stesso rigore con cui tratto gli altri oggetti, offrendo la migliore condizione di ascolto possibile.
In che modo è stata ottenuta?
È stato chiamato un tecnico per insonorizzare completamente la stanza ed è stato acquistato uno dei migliori sistemi di ascolto. Inoltre i file consegnati dagli artisti sono sempre stati al massimo livello. Abbiamo ottenuto una condizione che si può trovare solo in uno studio. Molto apprezzata dai musicisti stessi.
La musica e i suoi protagonisti celebrati al Museo MACRO di Roma
Le mostre sono tutte uguali?
Sì, per quanto riguarda l’esperienza all’interno della sala. Esternamente invece sono stati introdotti dei cambiamenti in funzione dell’artista. Per esempio Egisto Macchi e Pauline Oliveros erano gli unici due musicisti non viventi. In questo caso la scelta è stata orientata ad offrire un panorama il più possibile esaustivo del loro lavoro. Si è cercato inoltre di trovare delle espansioni, anche al di fuori della stanza.
Spiegaci meglio…
Nel caso di Pauline Oliveros è stata fatta una selezione di scritti perché la scrittura per lei era una parte importante della pratica. È stato fatto un workshop durante la mostra per approfondire il deep listening. Si è cercato di ottenere delle chicche, come le registrazioni di quando stava a San Francisco con Morton Subotnick.
Carlotta Petracci
museomacro.it
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