Arte, musica e giornalismo. Openless a Berlino indica una nuova strada per i festival musicali
Lo storico festival dedicato alla musica atonale elettronica sperimenta con progetti off di una sola edizione. Openless è uno di questi, il più votato alla multidisciplinarietà. Eccone riflessioni e report
La complessità del contemporaneo, oggetto di indagine di svariate arti e discipline, raramente viene raccontata dalla musica, soprattutto all’interno dei festival, che privilegiano l’intrattenimento o la performance audiovisiva di stampo tradizionale. La prima e unica edizione di Openless, il nuovo progetto off di Berlin Atonal (lo storico festival dedicato alla musica atonale elettronica) che si è tenuta dal 23 al 25 agosto negli spazi del Kraftwerk, mette un punto definitivo a questo approccio, nell’ottica di una trasformazione radicale.
Berlin Atonal: un approccio più culturale e meno musicale ai festival
Anche la musica può essere politica, può manifestare ed esprimere un interesse per tematiche di attualità come l’ecologia, il colonialismo, l’identità, i conflitti culturali, che permeano le differenze economico-sociali del mondo che abitiamo. Per Berlino non si tratta di uno sguardo completamente nuovo. A livello underground è da almeno un decennio che il focus si è spostato sull’interdisciplinarietà, in una forma che non interessa più esclusivamente l’estetica, ovvero il campo dell’arte, ma che la oltrepassa per dialogare con discipline teorico-sperimentali, votate all’analisi tanto quanto alla ricerca sul campo, come l’antropologia, la sociologia, l’etnografia, talvolta la statistica e il giornalismo stesso. Il risultato è la crisi e la messa in discussione del concetto di line-up, in nome di uno spostamento verso un calendario di performance site-specific concentrate in un numero limitato di giorni, ma che potrebbero tranquillamente essere diluite in alcuni mesi, come nelle manifestazioni culturali.
Openless: il nuovo progetto off di Berlin Atonal più attento alle arti
Altra considerazione importante, che testimonia quanto sosteniamo da tempo: la musica deve entrare a pieno titolo nella sfera culturale e affinché questo accada forse è necessario innovare, ripensarsi, rompere gli equilibri e le abitudini consolidate, in termini di format, contenuti, scelta degli artisti, spazi, dinamiche di fruizione e tipologia di pubblico. L’idea di farlo attraverso dei progetti off come Openless è un’occasione per testare nuove idee, che promuovono anche un modo diverso di intendere e rapportarsi con lo spazio. Naturalmente stiamo parlando della location principale, l’imponente architettura post-industriale del Kraftwerk, dove è stato allestito un main stage, sul cui lato destro (rispetto allo sguardo del pubblico) si trovava un gigantesco schermo, e uno stage di dimensioni ridotte sul lato sinistro (rispetto alle spalle del pubblico) a metà della “navata” principale. Gli artisti hanno però organizzato anche delle incursioni nello spazio circostante, occupandolo in diversi punti, costringendo il pubblico ad accorgersi di questi accadimenti improvvisi, rivolgendovi la propria attenzione con uno spostamento fisico.
Openless: una nuova fruizione degli spazi per i live
La fluidità dell’utilizzo dello spazio ha determinato una maggior libertà di fruizione. Al più tradizionale comportamento frontale, se ne sono aggiunti altri. Le persone hanno cominciato a sedersi e stendersi per terra, su sedie e divanetti, o su piani orizzontali nelle “navate” laterali, manifestando un rapporto con la musica meno costrittivo e più privato. Non solo ascolto e ballo, ma anche sonno, riposo, ascolto profondo e meditazione, soprattutto nel caso delle performance che enfatizzavano maggiormente il viaggio mentale come quella di Nkisi o quella di apertura di Chris Watson e Izabela Dluzyk intitolata Białowieża dal nome della foresta che si estende dalla Polonia alla Bielorussia, territorio di attraversamento per i migranti, costretti ad affrontare innumerevoli difficoltà. Suoni della natura e di uccelli sono stati riprodotti con audio multicanale e completamente al buio.
Openless: un approccio diverso dal mainstream musicale
Tornando al rapporto dei corpi nello spazio, l’esperienza è stata essa stessa politica, soprattutto a fronte della sempre maggiore gentrificazione e turisticizzazione delle città. E ci parla ancora una volta della musica come arte della partecipazione, della libertà e della condivisione. Nonostante le grandi manifestazioni stiano diventando delle vetrine per le celebrità e i prezzi dei biglietti per i concerti degli artisti mainstream siano ormai alla portata di pochi o del sacrificio di molti. In questo panorama Berlino continua a fare la differenza, scegliendo di essere una voce fuori dal coro, votata alla resistenza, sia per la qualità curatoriale molto elevata delle performance e dei concerti di Openless, sia per il rapporto orizzontale tra arte e pubblico, per quanto l’accesso agli eventi (gli after party) sia sempre regolato da quelle door policies, che nei club si traducono anche nell’oscuramento di tutti i dispositivi digitali, tipiche dell’underground, che rimandano a un certo tribalismo. Quasi a una concezione iniziatica dell’appartenenza, fondata su un interesse autentico per la musica.
Openless: le performance e i live
Tra i set degli after party segnaliamo quello di Lee Gamble, il più energico in assoluto. Nella location principale la suddivisione in tre giorni è stata invece tematica, con un ultimo giorno più simile a un festival, rispetto alle due serate precedenti, dove le due performance più memorabili sono state quella di Canzonieri, il progetto artistico e musicale multimediale dell’artista Emiliano Maggi e del musicista Cosimo Damiano, affiancati da Lord Spikeheart e dalla performer Lara Damaso, e la premiere del nuovo progetto di Demdike Stare. Il primo giorno, che si è concluso con un live potentissimo sempre di Lord Spikeheart, vera e propria forza della natura proveniente dalla scena death metal del Kenya, è stato decisamente più di ricerca. Con progetti come quello di Forensis (Forensic Architecture) in collaborazione con Bill Kouligas di PAN, che hanno indagato il rapporto tra ecologie perdute e colonialismo, dando spazio a contributi visivi artistico-documentaristici. Il reportage è stato del resto un linguaggio trasversale, in dialogo con la musica, talvolta in aperta sovrapposizione. Come durante la serata del 24 agosto, dove i familiari di Doudou N’diaye Rose hanno ridato vita all’eredità musicale del percussionista senegalese (da poco scomparso), noto per aver diffuso la fama del sabar, affiancati da alcuni luminari della musica elettronica che hanno ripreso la grammatica percussiva di questa tradizione, ponendola alla base delle proprie sperimentazioni elettroniche.
Carlotta Petracci
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