Un libro per rivivere il mito dei Sonic Youth
Una leggenda a cavallo tra musica indie, pop, cinema e video. Questi furono i Sonic Youth secondo la ricercatrice Maria Teresa Soldani, che abbiamo intervistato in occasione del suo nuovo libro sul tema
Tra gli ultimi libri scritti dalla ricercatrice Maria Teresa Soldani, c’è Made in USA: L’opera dei Sonic Youth tra indie e pop, video e cinema. Un saggio pubblicato nel 2024 per la casa editrice Mimesis, che ricostruisce la storia della band – tra musica, cinema e mondo audiovisivo – e mette in luce i loro temi più significativi. Per approfondire il significato della loro produzione e ripercorrere i successi della grande band dei Sonic Youth, ne abbiamo parlato con lei in questo dialogo.
L’autrice Maria Teresa Soldani
Maria Teresa Soldaniè ricercatrice del Dipartimento di Filosofia “Piero Martinetti” dell’Università degli Studi di Milano. È stata visiting research fellow presso la McGill University nel 2015 e ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia delle arti e dello Spettacolo nel 2016 alle Università di Firenze, di Pisa e di Siena con una ricerca sul cinema indipendente americano. Dal 2017 al 2021 si è occupata dell’Archivio Audiovisivo del Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, curando la digitalizzazione e la realizzazione dei contenuti audiovisivi per le mostre e per la webTV. Ha pubblicato il volume Naked City. Identità, indipendenza e ricerca nel cinema newyorchese (Mephite 2013) e saggi in libri e riviste.
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L’intervista all’autrice Maria Teresa Soldani sul libro dei Sonic Youth
Quella dei Sonic Youth è una storia avvincente sia per il loro indiscutibile ruolo nel mondo della musica sia per i loro contributi alle trasformazioni della cultura contemporanea. Il tuo libro ne offre una ricostruzione, soffermandosi in particolare sulla produzione audiovisiva della band. Da dove trae origine la scelta di impostare uno studio di questo tipo?
La scelta ha una duplice origine. La prima da spettatrice e da musicista: sono cresciuta ascoltando tanta musica e guardando spesso la “videomusica” in televisione, soprattutto su un canale speciale quale è stato VideoMusic. Negli anni in cui mi formavo, dominavano il grunge e il crossover, soprattutto la musica dei Nirvana. Nelle rotazioni televisive, improvvisamente, facevano capolino questi oggetti strani e perturbanti quali erano i videoclip e le performance dei Sonic Youth. Mi affascinavano e mi agitavano. Esattamente come la loro musica, che ti ammalia e ti percuote. Negli anni ho avuto anche la fortuna di vederli dal vivo e di coglierne la potenza e l’energia performativa.
E la seconda origine invece?
La seconda è quella della ricerca. Fin dai primi scritti scientifici mi sono occupata di pratiche artistiche ibride e intermediali – soprattutto delle relazioni tra le immagini in movimento, cinema e video prima di tutto – e le altre arti, particolarmente quelle sonore. In questo ambito, mi sono concentrata sulle produzioni indipendenti e underground. La storia dei Sonic Youth è caratterizzata da continue e significative collaborazioni con artisti visivi e filmmaker, quali Richard Kern, Raymond Pettibon e Dave Markey: analizzandole è emerso quanto queste stessero delineando strategie più profonde.
I Sonic Youth secondo Maria Teresa Soldani
Oltre alla centralità del corpo e delle relazioni – riferimenti imprescindibili per inquadrare il trentennio di attività artistica (1981-2011) nel quale i Sonic Youth hanno lavorato in più direzioni – nel libro sottolinei anche la rivisitazione strutturale degli elementi del rock. Un ulteriore fattore cruciale per l’affermazione dei tratti noise della band. Come si caratterizza la loro pratica artistica in relazione a questi soggetti?
La pratica artistica dei Sonic Youth è profondamente appropriazionista e concettuale. Il loro dialogo con i musicisti coevi era tanto attivo, quanto il dialogo con gli artisti che facevano parte della loro scena a New York, come Dan Graham, Dara Birnbaum, Richard Prince e Robert Longo. Il loro approccio alla musica è artistico: mantengono la forma della canzone e l’organico rock tradizionale, come le band No Wave, per destrutturare gli elementi che caratterizzano queste costruzioni discorsive, ad esempio destabilizzando l’armonia complessiva del brano con le accordature anomale e intervenendo pesantemente sull’esperienza sonora tramite i feedback. La medesima cosa la fanno, concettualmente, sul piano visivo: prendono l’immaginario del rock, la figura della rockstar, il tema della celebrità e del fandom, l’immagine stereotipata del femminile in una cultura musicale prevalentemente maschile. Poi se ne appropriano e la destrutturano, similmente a come faceva Birnbaum con Wonder Woman.
La pratica dei Sonic Youth si è distinta anche per la loro abilità di coltivare numerose relazioni in più ambiti artistici. Uno dei frutti di questo approccio sono gli artwork dei loro dischi. Quali sono le loro principali caratteristiche e da quali orientamenti artistici sono stati influenzati?
Sicuramente Pop Art, appropriation art, arte concettuale e performance art, ma anche New American Cinema e videoarte. Il tema della celebrità, così come quello della relazione tra spettacolo e politica, tra mass media e processi storici, è sicuramente in continuità con l’opera di Andy Warhol. Ma la loro peculiarità negli Anni ’80 e ’90 è stata quella di essere artisti del e nel loro tempo, quindi intuitivamente capaci di costruire un immaginario coerente e perturbante, mettendo in cortocircuito storia e cultura visuale statunitense, creando arte attraverso media seriali popolari a basso costo, come il disco e il videoclip, e promuovendo il lavoro di altre figure, insieme ad artisti a loro contemporanei – allora parzialmente conosciuti – come Pettibon, Tony Oursler e Mike Kelley.
Accanto alla storia americana, per i Sonic Youth diventa altrettanto cruciale il tema del corpo. Hai individuato questo focus considerando in particolare la lavorazione del loro sesto album in studio, Goo, pubblicato nel 1990.
Il corpo è il medium con cui partecipare alle attività della scena e alle produzioni DIY, destrutturare gli stereotipi, irrompere nel panorama mediale con un “disordine semantico” – come indicavano le sottoculture secondo Dick Hebdige – e riscrivervi la propria immagine in maniera autodeterminata. Il corpo è quindi il soggetto/oggetto dell’appropriazione e della riscrittura in una dimensione mass mediale. In questa, i Sonic Youth scelgono, attraverso il piano della negoziazione col mainstream, di avere un campo di azione più esteso per la loro pratica artistica, come quello del palinsesto della TV generalista. Goo rappresenta quella chiave di volta: dopo varie etichette indie, firmano con la DGC, con cui hanno la garanzia del controllo artistico sulla loro produzione e sulla loro immagine. Pettibon ne disegna la copertina, che diventerà una delle più iconiche nella storia della band e delle art covers. Col finanziamento ottenuto dall’etichetta, realizzano alcuni videoclip per la diffusione su canali mainstream – quali MTV – e, soprattutto, producono un visual album con la collaborazione di artisti e filmmaker indipendenti, ai quali veniva affidato un piccolo budget e accordata ampia autonomia artistica. I frutti di queste collaborazioni si basano su una relazione di reciprocità non gerarchica, profondamente intermediale.
Autenticità, corpo-morto e desiderio: tre temi chiave per i Sonic Youth
Rispetto alla produzione audiovisiva della band, che ruolo ha il tema dell’autenticità?
Anche questo è un tema cruciale, soprattutto nel dibattito interno alle scene indipendenti, ossia proprio il contesto in cui operavano i Sonic Youth, così come i R.E.M. e i Nirvana. Si costruisce prettamente su un principio di relazione, come ricorda Allan Moore: in musica si definisce autentico qualcosa in relazione soprattutto all’ascoltatore. Il concetto di autenticità ricorre costantemente nei discorsi dei membri delle scene, spesso legato al tema del “selling out” – in breve del vendersi – ovvero abbandonare un’etichetta indie per una major, abbandonare una network autogestito per il corporate mainstream. Questi membri, però, sono quelli che creano costantemente la scena “dal basso” (Do-It-Yourself): organizzano concerti, gestiscono centri culturali, attivano fanzine, scrivono articoli, conducono trasmissioni in college radio, producono video e film. Esattamente quello che fa Markey nella scena della Southern California: un musicista e filmmaker che diventa subito – e lo rimarrà a lungo – collaboratore dei Sonic Youth. L’underground degli Stati Uniti è un network di queste realtà locali, di cui il quartetto di New York è stato connettore, diventando definitivamente “l’archetipo indie” di quella cultura, come dice Michael Azerrad.
Nel libro osservi che una seconda fase di rinnovamento della pratica artistica dei Sonic Youth si compie attraverso una particolare trasformazione tematica. Dal corpo si passa a quello che descrivi come “corpo-morto”. Come si traduce quest’ultimo soggetto, indagato anche in diverse letture postmoderniste, nel quadro della produzione audiovisiva della band?
È un tema che ricorre in filigrana fin dall’inizio, proprio perché considerato uno dei perni – e quindi dei soggetti su cui agire – della cultura anche visuale americana. Basti pensare all’album Bad Moon Rising, o all’attenzione per figure quali Karen Carpenter e Marilyn Monroe. Il tema del corpo-morto lega la band in maniera indissolubile agli autori coevi del “cinema indipendente americano”, come Tamra Davis, Richard Linklater, Todd Haynes e Harmony Korine. Si tratta, per quest’ultimo, di un tipo di cinema autoprodotto, emerso con tale espressione usata da critici e addetti ai lavori sostanzialmente fin all’inizio degli Anni ’80.
Ampliando l’orizzonte delle indagini dalla produzione musicale a quella audiovisiva, parliamo infine di un ultimo tema: il valore del desiderio.
Il desiderio scaturisce naturalmente dalla loro musica. È un motore che attiva e nutre le relazioni dei Sonic Youth. Ed è anche uno dei temi sottesi alle teorie femministe – che emerge maggiormente a partire dagli Anni ’80 – e dimensione che la cultura dominante dei governi Reagan-Bush Sr. ha cercato di anestetizzare attraverso un edonismo estetizzante. Il desiderio ci lega alla musica che amiamo, ai performer da cui ci troviamo irrimediabilmente attratti, e diventa un motore nel quotidiano di ogni persona su un piano sia soggettivo, sia collettivo. I Sonic Youth, e Kim Gordon in particolare, lo avevano chiaro.
Davide Dal Sasso
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Davide Dal Sasso
Davide Dal Sasso è ricercatore (RTD-A) in estetica presso la Scuola IMT Alti Studi Lucca. Le sue ricerche sono incentrate su quattro soggetti principali: il rapporto tra filosofia estetica e arti contemporanee, l’essenza delle pratiche artistiche, la natura del catalogo…