Antologia per quattro danze americane
La scuola di danza americana ha innovato nella seconda metà del Novecento non solo negli Usa, ma in tutto il mondo. Tanto quanto quella russa lo fece nella prima metà del secolo scorso. L’Opera di Roma ne presenta un’interessante antologia.
Martha Graham, Alvin Aley, José Limon, Doris Humphrey sono nomi mitici nella storia della danza. In Europa, i loro spettacoli approdano per la prima volta al tempo glorioso del Festival dei due mondi di Spoleto, dando una forte scossa al mondo europeo del balletto, ancora in gran misura ancorato alla tradizione tardo-romantica, sebbene nella prima metà del secolo scorso avesse gradualmente metabolizzato la tradizione slava dei Ballets Russes, la cui prima a Parigi ebbe luogo circa cento anni fa.
La scuola americana porta con sé il senso drammatico della bellezza nei movimenti di corpi spesso coperti all’essenziale, senza i grandiosi costumi della tradizione classica né dello stile slavo. Si basa su partiture sonore nuove, almeno per l’Europa: le evocazioni di Copland, il jazz di Ellington, gli adattamenti moderni (e per solisti) di Bach intrisi di echi folklorici. Quella danza non nasce come lo sviluppo di una trama, ma primariamente come espressione di sentimenti o concetti, stilemi gradualmente incorporati nella coreutica europea (e mondiale), anche se le rappresentazioni erano spesso ospitate non nei grandi templi della lirica e del balletto, ma in teatri più vicini all’innovazione come la Filarmonica romana.
Il Teatro dell’Opera di Roma decide di guardare a quel momento straordinario di febbrile mutamento, costruendo un’antologia per quattro brevi balletti, rappresentativi proprio di quella storia della danza americana che muove dalla seconda guerra mondiale agli Anni Settanta. Si tratta di uno spettacolo fuori abbonamento in quattro parti, replicato una settimana e forse ripreso le prossime stagioni. È quasi un trentennio, quindi, dell’arte della danza d’America.
La prima è Diversion of Angels, che Martha Graham ideò a partire dal poema di Ben Bellitt, rappresentata il 13 agosto del 1948 al Palmer Auditorium di New London, in Connecticut. Su musica di Norman Dello Joio, il balletto è ripreso dai coreografi Denise Vale, Peter London, Peggy Lyman, che reinterpretano una poetica divagazione sulla bellezza della gioventù, sul piacere, sull’allegria, sulla gioia e sulla tristezza legate al primo innamoramento. Gli interpreti principali, Gaia Straccamore e Damiano Mongelli, si alternano con Alessandra Amato e Paolo Mongelli. La coreografia ha passi difficili – che richiedono prova di atletismo – specialmente nella prima parte, improntata all’esaltazione euforica di gioia e allegria che si tramutano in tristezza quando l’innamoramento è finito.
È del 1947 Day on Earth di Doris Humphrey, una delle pioniere della danza moderna americana, su musica per piano di Aaron Copland. In scena Paul Dennis nel ruolo dell’uomo, si avvicenda con Alessandro Tiburzi e Riccardo Di Cosmo. Nel ruolo della donna Alessia Barberini si alterna con Claudia Bailetti. La versione di Day on Earth rimontata all’Opera di Roma porta la firma di Paul Dennis e Sarah Stackhouse, impegnata anche nella ripresa dell’assolo per violino di José Limón, Chaconne (del 1942), eseguito da Raphael Boumalia e da Manuel Paruccini svela l’influenza delle danze folkloristiche del Messico arricchite di connotazioni fortemente emotive ispirate alla musica di Johann Sebastian Bach. Due piccoli gioielli basati sull’armonia del corpo.
Chiude la serata The River di Alvin Ailey, ricostruito da Clifton Brown e Masazumi Chaya. Una miscela di danza classica, moderna e jazz sulle note di Duke Ellington vede impegnato in scena lo stesso Brown con Gaia Straccamore, insieme al Corpo di Ballo dell’Opera. Nato nel 1970, su commissione dell’American Ballet Theatre, The River è il frutto della collaborazione tra Alvin Ailey e Duke Ellington e nella combinazione dei generi esprime la mutevolezza dell’acqua nel suo viaggio verso il mare; una sorta di celebrazione della nascita, della vita e della rinascita. Quindi, estremamente stilizzato. Sul podio David Levi torna a dirigere l’orchestra romana dopo Uno sguardo dal ponte di William Bolcom.
Giuseppe Pennisi
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