Caino: il fascino e l’impossibilità dell’espiazione
Caino del Teatro Valdoca è una macchina poetica complessa. Tessuto su un telaio scenico in cui è fortemente riconoscibile la mano del regista Cesare Ronconi, lo spettacolo, andato in scena all’Arena del Sole di Bologna nel progetto Apprestaci l'incantesimo de La Soffitta, propone un ricamo prezioso di corpi e parole, quelle ispirate della drammaturga/poetessa Mariangela Gualtieri.
La storia è nota, ma qui si dà valore a ciò che spesso resta celato nell’esegesi della vicenda biblica: la “necessità” del fratricidio come condizione per la nascita e lo sviluppo della civiltà. Danio Manfredini è un primogenito assassino profondamente umano. L’attore – Premio Ubu per Miracolo della rosa e per Al presente, già nel Parsifal (1999) del Teatro Valdoca – indossa un vestito nero e stivaletti da donna, come a voler sottendere un’ambiguità di fondo. Una tensione irreggimenta il suo andamento per linee rette, blocca le braccia e serra il collo mentre il volto appare spesso amplificato dalle luci fredde provenienti da proiettori a vista che lo inseguono. Da un microfono all’altro, svela, contorce e ingoia una voce sofferente che si schiude nell’armonia di un canto africano, nel finale. Lucifero (Leonardo Delogu), istigatore di Caino, suo simile, felice di non essere più solo al mondo, irrompe sulla scena in abito bianco, altissimo, con un mantello smisurato punteggiato da pellicce di volpe: purezza e animalità del male. È principesco mentre sale la lunga scala che ascende verso un nulla e pronuncia un monologo in difesa del fratricida. È felino mentre gioca con il corpo di Abele (Giacomo Garaffoni) su un tavolo in proscenio per poi spingerlo via e prendere il suo posto.
Alle sue spalle campeggia un grande mascherone di materia lavica ispirato da Georg Baselitz, sospeso e scolpito in una smorfia di pena. Le voci dei due personaggi si avvicendano potenti, mai dialogiche, portatrici di una materia verbale sottile e densissima, aggressiva e coerente. Un coro di giovinette in vestiti bianchi e neri danza in circolo e bagna di luce il carnefice/creatore, manovrando i proiettori metallici. Sono un’umanità inconsapevole e muta. Di tanto in tanto, la Gualtieri, avvolta di cenci, adagiata su un lato della scena, come un oracolo-mendicante, potenzia il gesto agito del coro con il suo proferimento tenue e deciso.
Dalla sovrapposizione delle parole della drammaturga con le traiettorie disegnate dal regista emergono momenti di vera drammaticità. Come quando, dai tendaggi bianchi che delimitano lo spazio, fuoriescono, come viscere, tappeti purpurei, le braccia di morte che accoglieranno Abele. Come nel finale in cui delle teste di cartapesta dai lunghi nasi di collodiana memoria ingravidano le giovani danzatrici che turbinano, in un moto perpetuo, e coinvolgono Lucifero e lo stesso Caino, ostinato ma contrario, di spalle rispetto all’avanzare di quella stessa civiltà che ha contribuito a generare. Come nel momento in cui Caino lotta con un angelo danzante (Raffaella Giordano), ultima possibilità di grazia, intesa come bellezza e perdono. La danzatrice/coreografa – tra i fondatori della compagnia Sosta Palmizi e di React! e allieva di Carla Perotti, Carolyn Carlson, Pina Baush – è una figura sciolta, abita una tensione costante verso l’alto e, con uno sguardo sconfitto, disegna linee morbide, movimenti leggeri. Enrico Malatesta, drammaturgo di rumori e suoni live, appena celato da un tulle nero sullo sfondo, è il cuore dello spettacolo e batte il tempo di un mondo che nasce da pulsazioni disarmoniche.
“Una mano come la tua”, recita uno dei suoi passi più belli del testo della Gualtieri. Una mano come quella di Caino ha reso la Terra ciò che è, ne ha fatto il luogo del sacrificio dell’umano, dello splendore della scienza, della tecnica e delle arti. Caino è l’affresco della naturale contraddizione che ci ha generati e ne porta in scena il fascino e l’impossibilità dell’espiazione.
Nicoletta Lupia
www.teatrovaldoca.org
www.muspe.unibo.it
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