Hindemith, la carne e Dio
A Ravenna, un festival dedicato all’opera lirica. Che ha aperto con una coppia di lavori di Paul Hindemith che definire scabrosi è poco. E dire che sono stati composti negli Anni Venti e Trenta dello scorso secolo…
Giunto alla 23esima edizione, il Ravenna Festival è una delle manifestazioni multidisciplinari più importanti dell’estate. L’aumento del pubblico straniero – folta la presenza di giapponesi alla prima del dittico di Paul Hindemith – mostra il suo crescente ruolo internazionale. Dopo una doppia anteprima con Riccardo Muti e la Chicago Symphony Orchestra, e con Wayne Marshall alla guida dell’Orchestra Giovanile Cherubini, il festival ha rivelato un tema specifico: la musica del/sul monachesimo.
I due atti unici di Hindemith andati in scena il 6 e 7 luglio (dopo un’affollata anteprima) sono stati l’evento più atteso, sia perché i lavori del compositore (uno dei massimi teorici, oltre che dei maggiori autori della musica del “Novecento Storico”) vengono raramente eseguiti in Italia, sia perché il dittico è coprodotto dal Teatro dell’Opera di Roma dove sarà in scena la prossima stagione. Inoltre, l’allestimento è volutamente concepito a basso costo, in modo che possa essere ripreso da altri teatri.
Il dittico è composto dal balletto Nobilissima Visione del 1938, ispirato dagli affreschi di Giotto a Santa Croce sulla vita di San Francesco e da Sancta Susanna, una breve opera espressionista del 1921. Il primo è stato eseguito nel 1938 al Festival di Musica Contemporanea a Venezia, nonostante Hindemith e la sua musica fossero stati messi al bando in Germania per via del fatto che il compositore, sebbene religiosissimo, era sposato con un’ebrea. Il secondo è stato rappresentato a Roma alla fine degli Anni Sessanta e alla Scala nel 2006; la prima romana diede luogo a furiose polemiche poiché l’opera venne considerata “vilipendio alla religione dello Stato”.
Nonostante le profonde differenze, i due lavori hanno in comune non solo l’autore, ma anche il rapporto tra l’Eros e l’Alto (Dio). Non dimentichiamo che l’intero festival è dedicato alla musica dello spirito. Iniziamo dal balletto: cinque brevi scene dal matrimonio spirituale di Francesco (Alessio Rezza) con Santa Chiara (Gaia Straccamore), e quindi con Povertà, al Cantico delle Creature. Un’introduzione, un rondò, una marcia, una pastorale e una passacaglia. Una musica gioiosa, intrisa di carnalità. Il corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Roma sul palcoscenico e Riccardo Muti in buca alla guida dell’Orchestra Giovanile Cherubini fanno esplodere l’eros gioioso di un’Europa che, allora, correva verso le Seconda guerra mondiale.
Ma l’eros è pure al centro di Sancta Susanna. Non è la rievocazione in musica del visivo, ma una breve storia drammatica. Una giovane suora, in odore di santità per la sua dedicazione incessante alla preghiera, ascolta per caso i gemiti sessuali di due giovani nel giardino vicino alla cappella del convento. Ciò innesca un crescente turbamento: dal dubbio che la gioia può essere non nella preghiera, ma nell’atto sessuale, sino a un auto-erotismo sempre più sfrenato, al denudarsi sull’altare e al tentare di godere pure con la statua del Cristo in Croce.
Ciò sconvolge le consorelle, entrate nella cappella per i Vespri, che reagiscono gridando “Satana!”. L’opera creò scalpore già quando venne composta da un autore giovanissimo e impregnato di espressionismo: Fritz Busch si rifiutò di concertarla considerandola oscena e blasfema. Nel 1977, la prima italiana all’Opera di Roma fu segnata da tumulti in sala e da una denuncia nei confronti del sindaco e del sovrintendente. Nel 2006 La Scala ne ha prodotto un’edizione grandiosa in cui si metteva l’accento sui dettagli più scabrosi. Oggi, invece, possiamo interpretarla più serenamente.
La regia di Chiara Muti pone l’accento sulle difficoltà psicologiche della clausura e sulla ricerca del perdono (e della punizione) dopo il peccato. Mostra, quindi, il nesso con Marienleben, il ciclo vocale su liriche di Rilke dedicato alla vita della Madonna, composto da Hindemith subito dopo Sancta Susanna, quasi a voler indicare un’interpretazione corretta, e non morbosa, del suo lavoro precedente.
Giuseppe Pennisi
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