Disporre un arsenale contro il linguaggio. Intorno a All! di Kinkaleri
Sull’elegante verticalità di William Burroughs si appoggia la ricerca più recente di Kinkaleri e l’investigazione sulla componente virale e parassitaria del linguaggio viene eletta come centro da cui far esplodere una serie di eventi, sotto il comune denominatore di “All!” dal quale si diramano e prendono corpo piccoli ma possenti attacchi all’idioma scenico.
Language is a virus è la formula che Burroughs ha tracciato a cavallo tra Il libro della respirazione e La rivoluzione elettronica. È necessario congegnare un preciso attacco al virus del linguaggio che più di ogni altro ha invaso il nostro corpo e che più di ogni altro il nostro corpo non riconosce come estraneo e codifica come proprio. “Un’arma a lunga gittata può essere forgiata – scrive Burroughs – da un nuovo linguaggio. Lo scopo è costruire una lingua nella quale certe falsificazioni inerenti a tutte le lingue occidentali esistenti siano rese incapaci di formulazione… Un linguaggio che cancellerà questi meccanismi virali e ne renderà la formulazione impossibile. Un’arma contro il virus.
Il primo gesto è dunque quello di approntare tattiche. E affondare la lama nei luoghi in cui si codifica e decodifica un messaggio, per predisporre altre logiche, impiantarvi nuovi codici, ma replicando i dispositivi in uso per agire indisturbati. Kinkaleri sceglie, in questo caso, di collocarsi dove la parola si traspone e trasla in gesto. Siamo nel campo dei meccanismi propri della traduzione, nel senso più esteso del termine, come stadio/essenza ultima e definitiva di ogni formulazione linguistica. La traduzione implica il passaggio, sempre arbitrario, da una lingua a un’altra, o più in generale da un linguaggio a un altro. Ipotecando che in questo transito possa consumarsi una possibile perdita, un’inevitabile minorazione. Quello che in letteratura avviene nelle traduzioni estreme di Hölderlin da Sofocle o da Pindaro, in cui l’atto di trasporre diviene penetrazione e appropriazione. O la traduzione “inter-soggettiva” che si verifica con il cecoslovacco di Kafka che scrive in tedesco.
Comunque il codice di partenza (l’architesto lo chiama Derrida) è intaccato in qualche maniera. Anche laddove l’operazione è delle più letterarie. O dove la questione non è tradurre un originale, ma assumere il gesto della trasmutazione con lo scopo di sferrare un attacco frontale alla “lingua madre”. È il caso di Louis Wolfson, ancora una volta, della traduzione estemporanea dall’inglese materno a un nuova lingua fatta di assonanze, con l’uso simultaneo del magnetoscopio per immettere bombe virali all’interno del tessuto espressivo. Le processazioni sottese alla traduzione sono questioni fondamentali per l’indagine sui linguaggi. Pensiamo, per chiudere lapidariamente questa carrellata, al Work in Progress, il laboratorio di sperimentazione che per anni James Joyce tenne vivo per la scrittura di Finnegans Wake, nel corso del quale chiese a Beckett, che faceva parte del gruppo di ricerca, di tradurre dall’inglese al francese Anna Livia Plurabelle (ottavo capitolo dell’opera) che lui stesso tradusse dall’inglese all’italiano.
Kinkaleri, per All!, agisce in tre direzioni. Primo di tutto inventa un codice parallelo e segreto (il suo archi-testo) ma creato a impronta sull’alfabeto: su una tavola a ogni lettera corrisponde un gesto ben preciso. Se il gesto traduce e doppia un codice alfabetico-gestuale e quindi visivo, aggira una delle questioni e cioè quella del verbo identitario per eccellenza, il verbo essere, che in un sistema così congegnato perde il suo ruolo, quello di mettere in relazione le cose perché sono. Qui il gesto corrisponde a una singola lettera, quindi a una minima parte della costruzione della parola, per cui non nomina e non mette in rapporto essenze. Il verbo essere per Burroughs è uno dei meccanismi virali più importanti da attaccare: “Sei un animale. Sei un corpo. Tu non sei un animale e non sei un corpo perché queste sono etichette verbali”.
E, al contempo, ponendosi in quel confine sottile tra codice e gesto, Kinkaleri sceglie la via della danza, senza pagare il dazio all’arte coreutica e aggirando questioni puramente compositive. La combinatoria di gesti, infatti, crea concatenazioni libere dai lacci della coreografia, proprio perché il luogo è in tran-sito e il codice di riferimento non è condiviso. Infine, quella che potrebbe a monte essere un’operazione algida e fortemente strategica, nel momento in cui si mostra, proprio perché non cancella la questione del codice, che è segreto ai più, inventa un gesto misterioso e delicato, quasi infantile, tipico delle rifondazioni o delle rinegoziazioni. Dolcemente avviene che il codice trascolori in un’intimità dialogante. “Questa lingua lascerà l’opzione del silenzio. – scrive Burroughs quando progetta il linguaggio da opporre al virus – Quando non sta parlando, chi la usa potrà ricevere le silenziose immagini dei linguaggi scritti”.
Quando si dispone un arsenale bisogna farlo con chirurgia. Bisogna mettersi attorno a un tavolo prima di tutto. È esattamente questa la situazione di una delle escrescenze di All! – Threethousand – programmato da Xing nel novembre scorso per il Raum di Bologna. Accanto a Marco Mazzoni e Massimo Conti, esponenti del gruppo Kinkaleri, la musicista Daniela Cattivelli. Il testo di riferimento in questo caso sono Le lettere dello Yage di Burroughs, il carteggio con Allen Ginsberg. Il passaggio scelto è lo scritto di un misterioso Vecchio della Montagna, Hassan Sabbah, che Burroughs invia a Ginsberg dandogli una serie di istruzioni: “Taglia lungo le linee…Ora leggila forte e sentirai La Mia Voce… Taglia e risistema in qualsiasi combinazione. Leggi ad alta voce…Non ci pensare. Non teorizzare… E ricordati sempre. Niente è vero. Tutto è permesso”. Si tratta della tecnica del cut-up ma applicata alla voce. I tre artisti lavorano dentro il testo che viene sfaldato dall’emissione vocale e sonora, in un gioco senza ruoli. A tratti riemergono i gesti del codice alfabetico, come una danza che resta attaccata ai bordi del tavolo senza mai esplodere. Sul tavolo una serie di custodie da cui vengono estratte le pistole. Qui, come in altri eventi di All!, si spara a salve per replicare che è un’arma ciò che è necessario mettere in campo e un’esplosione.
Chi in maniera specifica ha lavorato nel secolo scorso sulla consunzione e consumazione del potere del linguaggio ha messo in pericolo un ipotetico originale, insinuandosi in quelli che Foucault chiama spazi tropologici del vocabolario. Immettendo dei virus. In questo senso una sorta di parabola si può tendere da Artaud a Burroughs, passando per Beckett (e quindi per Joyce e per Louis Wolfson). Ci si muove esattamente nella costellazione dei punti di riferimento in cui, dagli anni novanta a oggi, Kinkaleri si è mosso. E non lo si fa per rendere omaggio un’ennesima volta alla religione dei nessi dotti, ma piuttosto per cominciare a collocare la ricerca del gruppo toscano in questa ottica. Un’ottica operativa che si esplica nel posizionarsi su certi luoghi incandescenti della scena ma, anche, della riflessione sul linguaggio scenico. I processi di analisi, avvengono solo quando il tempo processa, e quindi sempre e solo in un’ottica di collocazione data da una distanza. La cenere non è la traduzione del fuoco – recita un motto celebre tra gli studiosi di linguistica e traduzione. All!
Lucia Amara
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