Il marchingegno performativo di age
Per cominciare: come si articola la struttura di <age>?
<age> è strutturato in quattro capitoli che procedono per accumulazione di informazioni. Il primo è un prologo dove si introducono i materiali utilizzati in scena attraverso una modalità di classificazione (alla slide proiettata, contenente titoli o nomi, corrisponde la presentazione, in scena, dell’oggetto ad essa corrispondente). Nel secondo capitolo vengono classificati, con la stessa modalità, gli “esemplari” umani che abitano la scena: viene dichiarato “chi” è “cosa”. Gli esemplari sono adolescenti, performer, esseri umani. Sono tutte queste cose, ma nessuna è dichiarata. Nel terzo capitolo si presentano i “comportamenti” degli esemplari. Nessuno esegue mai la stessa cosa di un altro ed è continuamente in atto la selezione. Nell’ultimo capitolo si alzano tutti e lavorano per formazioni su delle strutture geometriche diverse come distribuzione dello spazio. Sono un corpo unico e il “comportamento” del gruppo corrisponde al titolo presente nella slide di riferimento.
Quali sono i parametri di queste selezioni e da dove provengono?
Abbiamo definito i parametri raccogliendo oltre 470 domande di adolescenti. Sono tutte domande di autodefinizione tipo: “sei sincero?”, “credi nelle coincidenze?”, “ti puzzano i piedi?”. Alcune dal tono particolarmente goliardico altre con toni più seri. Abbiamo redatto il questionario, ciascuno ha risposto esprimendo un’idea personale su se stesso. Prima delle date di spettacolo ricevono il questionario vuoto, le autodefinizioni si aggiornano costantemente. A ogni data si sceglie di scartare qualcosa. Quello che mi affascina è questa idea di continuo scarto, di spreco, che permette alle cose fatte in scena di avere un valore diverso soprattutto come sensazione interna perché i ragazzi non sanno mai quali tra i “comportamenti” preparati verranno presentati nello spettacolo e questo aumenta il rischio e l’attenzione.
<age> vuole ripensare Cage. In che modo la tua idea di danza si sposa con l’orizzonte cageano…
Dal 2007, anche al di fuori di <age>, abbiamo avviato un progetto decennale sulle eterotopie e le eterocromie che contempla un principio strutturale e spaziale come cardine del lavoro. In <age> l’idea di spazio più che l’occupazione geometrica, geografica o grafica della scena, è ridotta a un’idea di spazio concettuale coincidente con la soglia tra il “sì” e il “no”. La soglia che i performer varcano accedendo o no al luogo dello spazio scenico. Quindi lo spazio è esserci o non esserci in quel momento. Lo si concepisce come spazio di visione e di esposizione, un microscopio che espone i ragazzi. Accedere o non accedere. Dal punto di vista temporale, è la soglia della loro età perché sono tutti sul punto di diventare maggiorenni o lo sono diventati da poco. Mi interessava l’idea di questo momento senza dimensioni, di questo spazio che loro attraversano ma che non vivono mai.
La durata delle azioni completa l’idea di spazio condiviso col pubblico, poiché nessuno conosce a priori il tempo dell’azione. Indeterminazione e ruolo dello spettatore, quanto sono in gioco in <age>?
Dal punto di vista tecnico, i tempi sono scanditi da Angelo Pedroni. È l’arbitro della scena e decide la durata delle azioni non secondo una regola, ma pensando a ciò che accade, al tempo di visione dello spettatore in base al numero, al tipo di azioni o a come le azioni stanno avvenendo nella contingenza dello spettacolo. D’altra parte, il fatto che sia lui a decidere i tempi, amplifica la condizione dei performer: il rischio è totale perché non hanno margine di scelta all’interno di queste regole. Il tema dello “sguardo dello spettatore” è stato affrontato come parte del processo creativo e didattico per il lavoro di formazione e allenamento dei performer. Abbiamo scelto di metterli nella condizione di spettatori come primissimo passo di formazione.
L’idea di performer che emerge da <age> sembra rovesciare i termini grotowskiani: “il guerriero dal cuore di giovinetto” diventa per te un “adolescente kamikaze”….
Siamo partiti dall’idea di rischio. Scegliere degli adolescenti è stata una conseguenza perché a livello biologico erano gli unici performer in grado di poter sostenere il tipo di presenza che volevamo per la scena. Per me la cosa fondamentale era la loro curiosità estrema. Pensare l’evento come qualcosa di pericoloso non soltanto per chi lo vive sul palcoscenico, ma anche per chi lo va a vedere. Andare a teatro è una condizione pericolosa. Da un certo punto di vista questa lontananza dei ragazzi dal campo precostituito del fare teatrale, dalle attitudini logistiche o dalle convenzioni relazionali, è una grandissima risorsa di freschezza. È occasione di indagine delle regole sotterranee che governano un evento teatrale. Per tutte queste caratteristiche, era importante avere degli adolescenti. L’idea del guerriero e del kamikaze rientra con il grado di rischio aldilà di <age>. Mi piace pensarlo come un principio costante comune a tutti i lavori teatrali, da tenere ben presente anche quando vado a vedere la performance di qualcun altro.
L’adolescente come punto di vista per indagare la dinamica scenica del performer?
Sì e in qualche modo per me l’adolescente è il performer ante litteram.
Il processo di autodefinizione dei performer produce un effetto di differenziazione tra gli individui abitanti e non la scena. Si attiva un procedimento statistico alla ricerca di un contenuto di valenza sociale. Quanto conta quest’aspetto nel lavoro.
Per me questo è arrivato dopo. Nasce dall’osservazione di quello che avevamo a disposizione per il progetto. Non è un lavoro sugli adolescenti. Usare degli adolescenti come performer è una conseguenza. Ci siamo chiesti chi poteva abitare lo spazio con queste modalità. Il lavoro non è nato come forma di analisi sociale, però poi va contemplata. Non vuole trarre delle conclusioni sui contenuti che emergono dai singoli, se non questa continua differenziazione. A poco a poco ci siamo accorti che è un grosso problema da risolvere per mantenere tutto sottile e non farlo cadere in una conclusione. Per questo bilanciare la scelta dei parametri selezionati, da un punto di vista registico, è estremamente complesso.
Che tipo di rapporto c’è tra il lavoro finito e la regola che l’ha generato?
A me piace pensare a posteriori che i lavori che ho strutturato dal punto di vista registico non siano stati altro che una pianificazione di regole organizzate sulla base dei concetti su cui di volta in volta lavoravo e questo regolamento diventa una sorta di metodo generativo che viene poi abbandonato e la performance è soltanto ciò che accade in conseguenza. Io non ho più il controllo di che cosa avviene. La performance non è una certificazione dell’azione ma di quest’ambiente regolato in cui tutto ciò che va ad abitarlo è coerente col sistema creato.
Cosa ti porti dietro dall’esperienza con questi adolescenti-performer?
Mi piacerebbe mettermi nei loro panni. Fare quello che noi gli abbiamo chiesto di fare. Mi piacerebbe riuscire a fare quello che ci siamo inventati per loro da sola. Vorrei conservare dunque il coraggio e la curiosità racchiuse nelle domande. Loro ci hanno regalato tanti preziosi interrogativi che porterò con me come spirito di indagine.
Ida Alessandra Vinella
www.collettivocinetico.it
romaeuropa.net/festival.html
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