I Due Foscari. Herzog e il dramma senza dramma
Giuseppe Verdi secondo Herzog. Il grande regista tedesco è a Roma per la messa in scena della tragedia romantica. Artribune ha scambiato due parole con l’autore, e vi racconta la sua versione.
Werner Herzog è a Roma per la messa in scena de I Due Foscari di Giuseppe Verdi. Tutte le regie liriche (circa una dozzina) del grande regista cinematografico (autore di più di cinquantina di film tra fiction e documentari) rivelano un carattere visionario. Anche quando seguono canoni tradizionali, non sono mai realistiche o naturalistiche. Filtrano l’azione scenica attraverso occhiali che esprimono impressioni, sentimenti e riflessioni interiori. Dopo aver assistito a Doktor Faust di Busoni a Bologna nel 1986, Giovanna d’Arco di Verdi sempre a Bologna nel 1989, La Donna del Lago alla Scala nel 1992, Tannhäuser di Wagner a Palermo nel 2000, ora è la volta di I Due Foscari.
Prima di esaminare questa sua ultima fatica, abbiamo modo di scambiare qualche idea con lui. “Ascolto quasi sempre musica quando lavoro, ma vado raramente all’opera”, ci dice Herzog. “La musica si traduce in mie visioni interiori tanto che le volte che ho messo piede in un teatro lirico queste visioni si sono scontrate con l’interpretazione altrui sul palcoscenico: quindi non apprezzo adeguatamente lo spettacolo. La mia visione si scontra con quella di regista, scenografo, costumista, light designer…”.
Le opere liriche messe in scena da Herzog sono caratterizzate da una scarsa azione drammatica, “sono quelle che”, precisa, “meglio consentono di esprimere la visione drammatica interiore innescata dalla musica”. Non è un caso che Doktor Faust e Giovanna d’Arco fossero composti come grandi tableaux vivants con colori sgargianti.
I Due Foscari è in assoluto l’opera più breve di Verdi. Appartiene alla categorie di drammi in musica senza una vera azione. “È tratta da una tragedia di Byron, grande poeta ma povero drammaturgo”, spiega il regista. Byron, però, non intendeva che la sua tragedia venisse messa in scena. Al pari di quelle manzoniane e alfieriane, la tragedia era destinata alla lettura (e alla meditazione) non alla rappresentazione. Né il libretto di Piave né la tragedia di Byron illustrano il contesto storico-politico. Ai lettori di Byron, però, veniva offerta una prefazione che contestualizzava la tragedia.
La vicenda. Nel Quindicesimo Secolo, le famiglie Foscari e Loredan si contendono Venezia. Francesco Foscari riesce a farsi eleggere Doge per 35 anni, mentre Loredan presiede il Consiglio dei Dieci, ossia il tribunale supremo. Foscari ha avuto dieci figli – cinque maschi e cinque femmine. Dei maschi, quattro muoiono in fasce, da qui il forte affetto che Francesco nutre Jacopo, l’unico possibile erede. All’apertura del sipario, Jacopo è accusato di tradimento e di omicidio e viene processato dal Consiglio dei Dieci. Il giovane si proclama innocente, ma il tribunale lo condanna all’esilio, ponendo anche fine alla dinastia. Francesco disperato per la perdita e del figlio e del ruolo abdica e muore. Storici recenti attestano l’esistenza di lettere tra Jacopo e gli Sforza di Milano, acerrimi nemici della Repubblica Veneta, ma anche con Maometto Secondo che aveva mire sulla Dalmazia. Si ritiene inoltre che, in un duello in una calle, Jacopo abbia ucciso ‘un famiglio’ dei Loredan (sebbene non è dato sapere chi per primo avesse sfoderato la spada). Il lavoro è imperniato più che su queste vicende sul tormento paterno per la perdita dell’unico figlio rimastogli più che su quello della moglie di Jacopo, Lucrezia Contarini. In scena non avviene nulla o quasi. Tutto accade prima che si alzi il sipario e i fatti di rilievo dei tre atti si verificano, in gran misura, dietro le quinte. L’opera ha tre personaggi principali e segue per lo più le regole dell’unità aristotelica (tutto in un giorno, nel Palazzo Ducale e dintorni). Anche lo sviluppo psicologico dei protagonisti è limitato. Come risolve Herzog questo dramma senza dramma? Ancora una volta, ci presenta una Venezia visionaria, invernale, con giacchi che dalla laguna entrano nelle prigioni e nei saloni del Palazzo. Fuori, un cielo plumbeo si alterna ai fiocchi neve mentre l’azione si base su una recitazione accurata.
Un cenno alla parte musicale. I Due Foscari è un lavoro, da un lato, agganciato ancora al melodramma donizettiano con arie da virtuosi e, dall’altro, rivolto alla fine dell’Ottocento, con enfasi sul declamato, sul continuo orchestrale denso di mezze tinte. Riccardo Muti evidenzia l’equilibrio nella strumentazione e i colori smorti nell’armonia, impiegata prevalentemente nella tonalità bemolle. Nello spettacolo, primeggiano le voci: Luca Salsi nelle due arie del Doge Francesco in cui la melodia è radicata in una realtà tragica, Francesco Meli (Jacopo) nelle due arie spinte in cui sfoggia una vocalità generosa e Tatiana Serjan (Lucrezia) nell’impervia coloratura drammatica.
Giuseppe Pennisi
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