Tre thriller in musica
In queste ultime settimane si sono visti in diversi teatri italiani tre thriller o gialli in musica. L’analisi del nostro globetrotter melomane, da Venezia a Ravenna, da Amsterdam a Londra.
Dei tre gialli in musica visti in quest’ultimo periodo, uno resterà in scena a lungo perché, dopo il debutto a Ravenna, si vedrà a Reggio Emilia e nella seconda parte del Maggio Musicale fiorentino. Si tratta di un’occasione abbastanza insolita perché il teatro in musica italiano colto raramente mette in scena gialli, consuetudine diffusa, invece, in Germania sin dall’inizio del Romanticismo e nella moderna opera americana. Non mancano le eccezioni: nel 1898 Fedora di Umberto Giordano (tratta, però, da un dramma francese) ha un primo atto da vero e proprio dramma giudiziario e un finale a sorpresa (truculento). Due dei tre thriller (la cui scrittura e composizione spanna dal 1920 ai giorni nostri) sono co-produzioni con teatri stranieri. Il terzo è una produzione interamente italiana.
I tre lavori sono: Il caso Makropulos (1922) di Leoš Janácek è una co-produzione La Fenice di Venezia e Staatstheater di Norimberga e l’Opéra du Rhin di Strasburgo che è stata vista anche a Londra e Leeds e probabilmente arriverà su altri palcoscenici europei (e italiani); The Rape of Lucretia (1946) di Benjamin Britten, debutta a Ravenna per essere in aprile a Reggio Emilia e nella seconda metà di maggio al Maggio Musicale Fiorentino; Cuore di Cane (2010) di Alexander Raskatov, co-prodotto dall’Opera di Amsterdam e dall’English National Opera di Londra, tra qualche mese sarà all’Opéra National di Lione. Due forti donne, più degli uomini che le contornano, sono l’elemento centrale di Makropulos e Lucretia. Una società totalitaria dedita alle manipolazioni genetiche quello di Cuore. I primi due sono thriller tragici; il terzo è un’opera corrosiva sebbene inscritta in un contesto ironico e pieno di slapstick alla Fratelli Marx.
In Makropulos siamo nella Praga degli Anni Venti. Un processo su una complessa vertenza di successione si trascina da decenni. Proprio mentre sta per scattare la prescrizione, entra in scena la bellissima giovane cantante Emilia Marty, che tanto sa ma che è alla ricerca disperata di un manoscritto in greco. Il dramma di Čapek dura oltre quattro ore ed è infarcito di discorsi filosofici. È un apologo sul valore e sulla durata della vita come esperienza terrena. Emilia Marty ha 327 anni: ha avuto negli oltre tre secoli vari nomi tutti con le iniziali E.M.: suo padre, il negromante cretese Makropulos, aveva predisposto una pozione di lunga vita per l’Imperatore d’Ungheria. Lei l’ha provata ed è rimasta giovane per sempre. Ma allo scadere dei giorni in cui si svolge la vicenda deve confezionare la pozione e berla di nuovo o morirà. La ricetta si è smarrita nelle mani di un antenato di coloro che sono stati coinvolti nel maxi-processo. Quindi, la sua ricerca affannosa. Emilia è così bella che una delle controparti nel processo (senza sapere di essere un suo bisnipote) si innamora perdutamente di lei, e che un altro si suicida quando apprende che suo padre (in possesso delle carte in greco antico) dà il documento in cambio di una notte di sesso con lei. Ma, sotto le lenzuola, Emilia è fredda. In 300 anni, i suoi amici, i suoi amanti, le sue persone care sono sparite. Quando, infine, ha il documento, lo cede alla fidanzata di uno dei suoi innamorati, che lo rifiuta; così Emilia in pochi istanti invecchia e muore. La regia di Robert Carsen (scene e costumi di Radu e Miruna Bruzescu) spostano di qualche anno l’ambientazione dell’azione :dal 1922 agli anni in cui a Praga ha luogo la prima della Turandot di Puccini (presumibilmente il 1929-30). Emilia Marty è, al secondo atto, applauditissima protagonista dell’ultima opera pucciniana. Nella breve introduzione musicale, l’abbiamo vista vestire costumi di opera barocca, di tragédie lyrique, di romanticismo tedesco ed anche di Violetta in Traviata. Non solo l’opera nell’opera ma un modo di mostrare come in trecento anni E.M. abbia avuto modo di affinare continuamente le proprie qualità vocali, perdendo progressivamente i propri sentimenti umani. Una drammaturgia molto efficace che spiega il successo internazionale dell’allestimento.
La vicenda di The Rape of Lucretia è tratta della storia dell’antica Roma: le scorribande del vizioso e brutale Tarquinio il giovane, durante il regno dell’etrusco Tarquinio il Superbo. Siamo nel 500 a. C., ma il coro del secondo atto è un inno alla pietà della Vergine e l’epilogo richiama il Calvario e la redenzione. Tarquinio violenta la più virtuosa delle romane (che ne morirà), ma sarà perdonato. Al pari di Peter Grimes, Billy Budd e War Requiem, The Rape appartiene alle riflessioni di Britten sulla violenza (e sulla virtù).
The Rape of Lucretia è un thriller per l’incalzare dell’azione e il finale a sorpresa. È anche un esempio di quello che Britten vede come il “teatro in musica dell’avvenire” in un mondo con restrizioni finanziarie per le arti sceniche, sempre più severe. Quindi anche se The Rape non è e non vuole essere un’opera da camera, ma una full opera che presenta una grande economia di mezzi: un ensemble di otto solisti in buca, otto contanti in scena di cui un soprano e un tenore danno corpo al coro. Grazie alla scena a due livelli e alle proiezioni, Daniele Abbado (regista e drammaturgo) crea l’impressione di un colossal con forti riferimenti all’attualità.
Non c’è invece alcuna economia di mezzi in Cuore di Cane di Alexander Raskatov. Nato nel 1953, dopo aver percorso un cursus honorum che lo fece ammettere all’Unione dei Compositori Russi nel 1979 (in età relativamente giovane), è stato una delle voci delle perestroika. Noto in occidente per la cameristica e la musica sacra (specialmente lo Stabat Mater del 1988), dal 1990 opera per lo più all’estero (Stati Uniti, Francia, Canada, Austria) dove insegna e compone. Il soggetto di Cuore, è tratto dall’omonimo romanzo di Michail Bulgakov (1925): uno scienziato trapianta il cuore di un cane moribondo nel cadavere di un uomo appena morto; nasce un nuovo soggetto dalle fattezze umane che ne combina di tutti i colori sino a quando il chirurgo fa l’operazione inversa, ma viene accusato di assassinio. Il romanzo si offre a molteplici letture: dalla satira del nuovo uomo sovietico protagonista della Nuova Politica Economica degli anni Venti alla critica radicale degli eccessi della scienza. Non piacque alle autorità e restò proibito nell’Urss. La prima edizione in russo risale addirittura al 1987. Circolava attraverso il samizdat, la rete clandestina della dissidenza.
Bulgakov ne realizzò una versione scenica per il Teatro d’Arte di Mosca nel 1926 che non ebbe miglior sorte e non poté essere rappresentata. La struttura interna dell’opera è pressoché simmetrica: la scena 7 si conclude con l’operazione che trasforma il cane Šarik nell’uomo (o semi-uomo) Šarikov; le scene 8-16 corrispondono alle imprese di quest’ultimo sino all’intervento del professor Filipp Filippovi che riporta Šarikov all’originaria condizione canina. Rispetto a Bulgakov, l’opera concentra con maggiore continuità la satira antitotalitaria (al di là degli specifici riferimenti al regime sovietico del tempo, sono manifesti i richiami alle ombre inquietanti della Russia contemporanea) e accentua il dramma del creatore che arriva a distruggere la propria opera. È uno spettacolo grandioso con circa 30 solisti in scena, mimi e burattini e un’orchestrazione eclettica. È rapido, veloce e graffiante come un film di Charlie Chaplin. Per questo è piaciuto anche al tradizionalista pubblico de La Scala.
Giuseppe Pennisi
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