Il Teatro de Bouffes du Nord, reso celebre negli anni Settanta dalla direzione di Peter Brook e Micheline Rozan, è oggi diretto da Olivier Mantei e Olivier Poubelle. Insieme hanno consacrato le loro due prime stagioni teatrali al legame tra musica e rappresentazione. Non solo introducendo una programmazione concertistica piuttosto nutrita, ma anche producendo degli interessanti esperimenti di messa in scena al confine tra i due differenti linguaggi. Le crocodile trompeur / Didon et Enée ne è un degno esempio.
Ispirato alla famosa opera barocca Dido and Aeneas di Henry Purcell, lo spettacolo intreccia magistralmente il teatro shakespeariano al dramma musicale; gli attori, che sono anche ottimi cantanti e musicisti di cultura jazz, passano continuamente da un genere all’altro, sapientemente miscelando la parola al canto, il francese all’inglese, il contrappunto al farsesco, il sentimentalismo trattenuto alla comicità ironica e insieme all’intellettualismo più dichiarato. Nel complesso prologo-ouverture Florent Hubert, direttore musicale, disvela, a guisa di personaggio menandreo, i temi sotterranei della rappresentazione. Un florilegio di corrispondenze in cui al concetto pitagoreo d’armonia fanno eco le traiettorie orizzontali del viaggio di Enea e quelle verticali tanto della filosofia negativa che del fanâ islamico. La Cartagine virgiliana diventa allora la porta verso un Oriente culturale tutto ancora da esplorare; tanto quanto l’evocazione del portale medievale su cui è scolpita l’effigie d’un dragone nell’atto di vomitare un corpo di donna gravida, diventa l’ingresso simbolico verso uno spazio della rappresentazione che è concepito dai due registi come il ricettacolo di quelle immagini che costituiscono il vero patrimonio collettivo di questa vecchia parte di mondo.
Come si trattasse d’una dissolvenza cinematografica, la disgressione di Hubert sfuma nell’accordarsi degli archi ora tutti in scena. La breve apparizione strumentale cede il passo a una scombinata combriccola d’uomini che parla la lingua di Shakespeare: inscenano un’autopsia del cadavere di Didone alla ricerca di quegli organi che secondo la medicina antica ardevano sotto le fiamme d’Amore. E tutto si mischia, tempi e luoghi.
Quando ora l’esilissimo corpo di questa regina di Cartagine, interpretata da Judith Chelma, emette suono, la sua voce dirompente appartiene già all’ordine del cosmico. Ecco l’enjeu di Le crocodile trompeur: fare delle voci spazio e tempo scenici. Non sorprende dunque, ma certamente scuote, il gesto intrepido e risoluto dell’attrice che con un cavo microfonato appoggiato al cuore amplifica il proprio battito cardiaco. Contemporaneamente scivola il velo grigio che fino ad ora ha coperto il fondo della scena. Appare uno spazio profondo consapevolmente costipato di strumenti musicali, di marchingegni d’orologeria e di macerie edili. Dichiaratamente ispirato a Il senso dell’udito di Jean Bruegel, questo spazio evoca per metonimia l’ensemble dei luoghi dell’historia. La montagna di rovine è per lo spettatore tanto la Cartago virgiliana, in cui tutti i cantieri in corso sono bloccati perché la regina è innamorata, che quelle alture sormontate da Mercurio, qui interpretato da Léo-Antonin Lutinier in frac e sci rossi; l’arbustello al centro della scena cita invece il boschetto, teatro della caccia d’amore, mentre la scritta une caverne ai lati indica sia la grotta delle maghe in Pursell sia quella dove si consuma l’adultero matrimonio, che in Virgilio unisce Didone a Enea. E tutti questi luoghi sono pezzi del corpo di Didone, della sua voce…
“Where is the body?” domanda agli spettatori Mercurio a metà del dramma avanzando sul proscenio con una testa di cerva impagliata dallo sguardo perturbante. Ed è Didone stessa a risolvere l’enigma. Prima appende il trofeo a un amplificatore all’angolo sinistro del boccascena. Quindi, cantata l’ultima aria “When I laid in earth”, sotto gli occhi vitrei di questo corpo sonorizzato, decide di morire inglobata alla base dell’arco scenico. La silhouette verde smeraldo di questa Didone si mimetizza come un ramarro all’ornamento architettonico del raffinato boccascena neogotico de Bouffes du Nord. L’Architettura è il suo destino.
Marco Villari
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati