Il senso di colpa dell’Edipo re. Nel teatro greco di Siracusa
È lo scenario consacrato da secoli per il più grande spettacolo del mondo. Si immagina anche il più antico. Oltre a Eschilo, nel V secolo a. C., che sedeva su quelle gradinate di pietra per assistere alle sue stesse rappresentazioni, perfino Platone, sembra, fu incantato spettatore nel teatro greco di Siracusa.
Anche quest’anno, nel centenario del ciclo di spettacoli classici dell’Inda, si ripete il suggestivo rito: rappresentazioni all’ora del tramonto nel teatro greco di Siracusa, che dovrebbero però rinunciare all’amplificazione (ma purtroppo è diventata abitudine che gli attori recitino microfonati) e, appello che rivolgiamo ai registi e ai loro scenografi, a chiudere alla vista di noi spettatori il verde Mediterraneo che si estende oltre l’antica cavea. Vista che ci è preclusa anche nell’edizione di quest’anno.
Per l’Edipo re di Daniele Salvo, infatti, lo scenografo Maurizio Balò ha costruito un enorme muro di cemento con porte sottostanti e un’imponente testa di Sfinge. Dagli occhi della scultura sgorgheranno lacrime di sangue quando Edipo si accecherà dopo aver appreso l’orrenda verità di parricida e incestuoso. Quella di Edipo – il principe che, ritenendosi figlio del re di Corinto, non esita a sposare la tebana vedova Giocasta, ignorando di esserne il figlio, così come non sa di essere stato proprio lui a ucciderne in una lite da trivio il marito Laio – è una storia conosciuta, molte volte reinventata, trasfigurata, analizzata, con implicazioni non più scrostabili. Alla deformità del piede deve il suo nome e l’avvertimento di un destino tragico che lo fece legare in fasce alle estremità per sottrarlo a una maledizione con l’abbandono da parte del padre Laio.
Nel riproporre la tragedia dell’innocente-colpevole, il regista ha pensato il personaggio all’interno di una vicenda dall’andamento psicoanalitico, che definisce un “sogno terapeutico”, dove realtà e inconscio si sovrappongono. E lo evidenzia anche nell’incubo tinto di rosso che fa succedere a Edipo, facendo materializzare in sogno gli avvenimenti a lui oscuri, rivivendo la colpa dell’incesto.
Il disegno registico punta alla spettacolarità, che qui non guasta, grazie anche a musiche dal sapore operistico (di Marco Podda), a luci cromatiche, a fuochi finali. Aggiunge un inquietante angelo nero (Melania Giglio) che sorge dagli inferi e appare a più riprese, intonando vocalizzi in greco antico. È il funesto destino preconizzato dagli oracoli, ossia lo spettro della Sfinge che incarna il senso di colpa di Edipo e, contemporaneamente, le Erinni della vendetta. Queste, replicanti della figura alata, emergeranno anch’esse, in ultimo, dal sottosuolo per avventarsi su Edipo. In lunghe tuniche nere è anche il Coro, esoterico, i cui volti invecchiati sono coperti da maschere di lattice che ne uniformano le fattezze, facendone un organismo che respira all’unisono essendo, del protagonista, parte dell’Io profondo. Appaiono, con lunghi bastoni in mano, in una terra bianca ma funestata da carcasse di greggi per via dell’orrore della pestilenza abbattutasi su Tebe per colpa – come ha fatto sapere Apollo tramite l’oracolo di Delfi – dell’impunito assassino di Laio.
La bella sorpresa di questo Edipo re è l’interpretazione di Daniele Pecci, attore di grande spessore, conosciuto soprattutto al pubblico televisivo e poco a quello teatrale (dove dà il meglio), che conferisce al suo Edipo i toni combattivi e una fisicità dirompente nella prima parte, mutando in una più tragica consapevolezza nella seconda, calandosi con sensibilità moderna nell’archetipo dell’uomo che vuole conoscere a fondo se stesso, costi quel che costi. Davanti alla testimonianza del suo salvatore non voluto e ritrovato, il trepidante e zoppicante Edipo arriva anzitempo a un’oscura consapevolezza della propria colpa e si abbandona per un attimo all’ansia distruttiva, per tornare con sofferta tenacia alla sua tormentosa ricerca d’identità.
Pervasa da materna apprensione è la Giocasta di Laura Marinoni, mentre testimone reticente è l’intenso indovino Tiresia di Ugo Pagliai. Ponendo in dubbio l’identità di Edipo, questi determina il percorso del protagonista, che si farà carico delle proprie colpe davanti all’autorità del Creonte vigoroso di Maurizio Donadoni. Completano il cast Mauro Avogadro, nel doppio ruolo di sacerdote e servo di Laio, Francesco Biscione, primo nunzio, e Graziano Piazza nell’impegnativo monologo del nunzio della reggia a cui spetta dare la notizia della morte di Giocasta.
Giuseppe Distefano
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