Verona. Un’Aida “furera”
L’Aida è l’emblema dell’opera areniana: opera che proprio quest’anno celebra i suoi cent’anni di vita. Ma cosa succede se l’allestimento viene affidato alla Fura dels Baus? In che cosa si trasformano le arie di Verdi sotto l’influsso di tecnologie sofisticate e rituali primitivi? Una serie di repliche fino al 3 agosto. Poi sarà la volta della rievocazione dell’Aida del 1913 con la regia di Gianfranco De Bosio.
La Fura dels Baus porta lo sconcerto in Arena, il tempio della tradizione lirica. Le abituali piramidi, sfingi, palme di cartapesta dell’Aida sono sostituite dalla semplicità del “teatro di strada” (giochi di luci e ombre, scenografie di fuoco e acqua) combinata a ricercate tecnologie (due gru costruite sotto gli occhi con tanto di luna smisurata che dondola appesa). La Fondazione Arena che ha invitato a firmare la regia dell’opera Carlus Padrissa e Alex Ollé della famosa compagnia catalana doveva essere al corrente di tutta la carica iconoclasta che ha sempre accompagnato le loro scenografie: un’energia tribale-rituale, ribelle, vitale, smisurata.
Non può stupire allora se il racconto verdiano è soverchiato dallo spettacolo/regia della Fura, come non può meravigliare se ci si trova di fronte ad un’Aida senza Egitto o se alcuni spettatori si lamentano e se altri se ne vanno. La Fura cerca uno “spettacolo totale”, che si completa con la presenza dello spettatore: insegue il superamento tra spettatore, scenografia, macchine, come succede quando dei figuranti entrano in mezzo alla platea portando “lanterne globulari”. È il pubblico che si muove dentro lo spettacolo, mosso dagli impulsi che gli arrivano dalla musica, dalle immagini, dalla drammaturgia. È lui che finisce per modificare lo spettacolo stesso.
L’impatto un po’ irriverente, un po’ inquietante si ha fin dal prologo, in cui per quindici minuti sul palco vuoto si ode solo il sibilo del vento del deserto che accompagna una spedizione archeologica. Mentre teli gonfiabili, simili a dune, si distendono lungo le gradinate. Poi, sulle note della celebre aria del Trionfo, entrano in scena animali meccanici e moto carrozzate, che ricordano sia le marionette di Bruno Schulz che gli alieni di Ridley Scott. E tutto si chiude con la costruzione di una centrale solare che si abbasserà sui due giovani amanti (Aida e Radames) “fino a creare una tomba dove moriranno”, come sottolineano i due autori.
Ma le metafore, i riferimenti mitici, i trucchi registici si inseguono senza sosta e non tutto è decifrabile. C’è molta provocazione e molta ironia in questa Aida. E forse ha ragione il sovrintendente Francesco Girondini quando dice: “Vogliamo trasmettere i contenuti del melodramma, che è prima di noi, con il linguaggio di oggi al pubblico di oggi”. Ma la poetica della Fura va anche oltre: non si tratta solo di aggiornare il passato, ma di “giocare con le epoche”, capendo che stiamo vivendo una delirante trasformazione “in atto”, una mutazione che è prima di tutto in noi e poi nell’arte tutta.
Luigi Meneghelli
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