Nel secolo XXI il Ring si addice alle marionette
Nel 2013 viene celebrato il secondo centenario dalla nascita di Richard Wagner. Pullulano le messe in scena e le nuove edizioni del “Ring”, la saga di quattro opere con oltre 30 solisti e un organico orchestrale smisurato, a cui l’autore ha lavorato per circa quarant’anni.
Per il Ring, Richard Wagner è riuscito a far edificare un teatro apposito dove si sarebbe dovuta rappresentare un’unica volta (distruggendo, successivamente, la stessa struttura fisica per cui era stata creata). Produrre il Ring è un’impresa terrificante: pare che la messa in scena della saga abbia portato negli Anni Novanta al dissesto finanziario del Teatro Massimo Bellini di Catania, e aveva già portato al collasso il Regio di Torino nel decennio precedente. Tentativi, o meglio conati, di una rappresentazione scenica a Roma sono stati tentati più volte dal 1961, senza mai avere un esito: ne sono state date due edizioni in forma di concerto.
L’impresa è una di quelle di fronte alla quale sovrintendenti e direttori artistici non restano insensibili: ad esempio, si sono cimentati di recente per la prima volta con il Ring il São Carlos di Lisbona e il Mariinsky di San Pietroburgo; a Seattle è stato costruito un teatro apposito dove da trent’anni ogni estate il ciclo delle quattro opere viene rappresentato, all’English National Opera lo si canta in inglese arcaico per dare al pubblico britannico fremiti analoghi a quelli che ha il pubblico tedesco. Su Artribune abbiamo commentato le drammaturgie di vari Ring, specialmente di quelli della Scala (co-prodotto con la Staatsoper di Berlino) e del Massimo di Palermo (interrotto dopo le prime due opere del ciclo).
E Salisburgo? Doveroso ricordare che nel 2006-2010 i Festival di Salisburgo e di Aix-en-Provence hanno prodotto insieme un Ring esemplare. Utile ricordare che, sino all’inizio degli Anni Sessanta, le messe in scene del Ring si basavano su ricostruzioni (spesso piuttosto buffe) in cartapesta, della Germania mitologica vista con il cannocchiale di intellettuali tedeschi della fine del XIX secolo: dal debutto (1876) alla fine della Seconda guerra mondiale. Successivamente si sono privilegiate letture simbolico-astratte sul tipo di quelle di Wieland Wagner, con le scene di Adolphe Appia fatte quasi esclusivamente di luci (tornate in auge negli Anni Novanta). La svolta avvenne con le letture politiche: più importante fra tutte, quella di Patrice Chéreau e Pierre Boulez a Bayreuth nel 1976.
Nella seconda metà del primo decennio di questo secolo, ad Aix e a Salisburgo, Stéphane Braunschweig (regia e scene), con la collaborazione di Thibault Vancraenenbroek (costumi), Mario Hwelett (luci) e Sir Simon Rattle alla guida dei Berliner Philarmoniker non forniscono né una lettura politica né filosofica né fantasmagorica.
Gli archetipi mitologici di Wagner sono uomini e donne (pur se Dei) alle prese con le loro passioni. La scena è composta di tre pareti grigie e una scalinata. L’attrezzeria è fatta di tre sedie, una poltrona in pelle, due letti e alcuni tronchi astratti d’albero; le proiezioni ci offrono la profondità delle acque del Reno e l’incendio con straripamento finale. Le luci fanno il resto tramite un abile gioco di colori. Sul palcoscenico non solo non ci sono foreste, palazzi reali e fiumi di cartapesta, costumi proto-tedeschi o nazisti o stalinisti tedesco-orientali, ma uomini e donne in abiti moderni. Ci vuole un grande lavoro di recitazione per rendere, in un quadro così spoglio (quasi minimalista), l’intrigo di tradimenti e amori che portano alla fine non solo degli Dei ma anche di un’intera classe dirigente terrena, tale da tenere l’attenzione tesa per circa sei ore. Un vero capolavoro di recitazione da parte di cantanti-attori selezionati con cura e addestrati per mesi in questo Ring di cui un editore franco-tedesco-giapponese si è già assicurato i diritti televisivi e di riproduzione in DVD.
Altra caratteristica è l’aspetto musicale. Nel golfo mistico c’è una formazione sinfonica che, di rado, entra nel comparto del teatro in musica: i Berliner Philarmoniker. Il Ring diventa una smisurata sinfonia sull’umanità alla ricerca di un nuovo, e migliore, futuro. Una meraviglia di colore, di sfumature, di virtuosismo in cui il sinfonismo continuo di Wagner evoca suoni intimi di cameristica. Dal suono chiaro e leggero, quasi etereo, si scivola, dolcemente, alle tonalità nere, tragiche. Indimenticabile il Sì bemolle con cui si chiude il ciclo: mai lo avevo sentito tanto pregno di speranza per un’umanità migliore. Un dettaglio: ci sono sei arpe al centro dell’orchestra, come prescritto dalla partitura, non due sistemate in un a palco di proscenio, come si usa di frequente.
Quest’anno al Festival dei Festival nelle Alpi austriache, Wagner viene celebrato non con un nuovo Ring ma con un’edizione di Die Meistersinger von Nurnberg, probabilmente a ragione della carica innovativa di quello del 2006-2010 passeranno anni prima che il Festival si imbarchi in un’impresa analoga. Lo ha fatto allora il Teatro delle Marionette, istituzione permanente incapsulata in un’elegante sala per 300 spettatori, ora all’interno del Teatro di Stato, ma costruita nel 1893 come salone da ballo dell’Hotel Mirabel. È un Ring ovviamente ridotto: dura due ore e un quarto. Loge, il Dio del Fuoco, tira le fila della complessa vicenda come narratore.
Un giovane attore e una giovane attrice danno una mano a Loge e interpretano sul palcoscenico alcuni personaggi (i due giganti, Hunding, Gunther e Gutruna, interagendo con le marionette). La musica e il canto sono forniti dalla meravigliosa edizione di Georg Solti, realizzata a cavallo tra la fine degli Anni Cinquanta e l’inizio degli Anni Sessanta che, grazie al tecnico del suono John Curlshaw, è ancora un miracolo di stereofonia.
La vera sorpresa è la drammaturgia (regia di Philippe Brunner e Barbara Heuberger, scene e costumi del collettivo sperimentale del teatro e di quello del fratello maggiore, il Landestheater che coproduce l’iniziativa). Il Ring viene presentato come una favola (come fa Lepage nel nuovo allestimento al Metropolitan di New York, mostrato in 1.700 teatri in HD). Ma è una favola ironica. Gli Dei viaggiano in Studebaker azzurra decapottabile e vestono chic-volgarotto stile nouveaux riches Anni Cinquanta, tranne Freia (Dea della Giovinezza) che imita Brigitte Bardot in Et Dieu Crea la Femme. Il Walhalla diventa una roulette per poveracci nella terza giornata, mentre Sigmund e Siglinda scorrazzano con la moto di Easy Rider. Le Valchirie sono Bluebells, Brunilda e Sigfrido due bei giovani (pardon, marionette) alla ricerca di lenzuola e materassi. Una favola ironica, puro divertimento. Interessante vedere in sala l’interesse di una famiglia di origini medio-orientale alle prese con le vicende della mitologia germanica. Un vero gioiello che parla a tutti.
Terminate le repliche a Salisburgo, riprenderanno in maggio 2014 (vale la pena prendere un appuntamento). Ma non ci si riposa: da ottobre a Natale è in tournée in dieci Stati Usa. Tifiamo perché se ne veda una in Italia: costa poco e attira pubblico a frotte.
Giuseppe Pennisi
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