Doppio suicidio d’amore a Sonezaki
È una pièce lontana tre secoli del repertorio bunraku quella che Sugimoto Hiroshi porta in scena nella versione integrale originale scritta da Chikamatsu Monzaemon. Un’affascinante sintesi di testo, musica, azione.
Il Bunraku è una delle espressioni più raffinate del teatro classico giapponese e, insieme al Kabuki e al Noh, è stato dichiarato dall’Unesco Patrimonio Immateriale dell’Umanità. Solo a sentire questa definizione si accende una curiosità così fervida da procurarsi un biglietto a qualsiasi costo. Il genere, mai arrivato prima in Italia, è stato portato da Japan Foundation per la doppia occasione del cinquantenario dell’Istituto Giapponese di Cultura e i quattrocento anni dell’ambasceria Keicho, il primo contatto ufficiale tra il Giappone e l’Europa.
Doppio Suicidio d’amore a Sonezaki con pellegrinaggio ai luoghi sacri di Kannon è stata messa in scena per la prima volta in Giappone nel 2011 con un allestimento completamente rinnovato del Sonozaki Shinju, un classico del repertorio Bunraku del XVIII secolo. La produzione, la regia, la direzione artistica e le immagini sono a cura di Sugimoto Hiroshi, artista eclettico naturalizzato newyorkese che negli anni ha spaziato dall’architettura alla danza e che vanta un’approfondita conoscenza dell’arte antica e del teatro tradizionale giapponese. Ma per lo spettacolo, che ha segnato anche l’apertura della stagione del Teatro Argentina di Roma, nulla è stato lasciato al caso. Le musiche sono state composte e dirette da uno dei massimi esponenti dello shamisen per Bunraku, nominato “Tesoro Nazionale Vivente”, Tsurusawa Seiji. All’interno delle scenografie minimaliste e sofisticate, esaltate da uno studio della luce raffinato e poetico, si muovono personaggi abbigliati con un gusto cromatico per dei costumi di scena di impeccabile eleganza. Se a tutto ciò si aggiunge anche la presenza di sfondi animati da Tabaimo si comincia ad entrare nell’idea della bellezza sintetizzata nelle oltre due ore di spettacolo.
La storia narra di un amore impossibile tra un mercante e una cortigiana all’interno del rigido sistema di regole del feudalesimo giapponese. La pièce si apre nel buio più profondo, dal quale emerge un personaggio che danza sospeso da terra. Si intravede solo un’ombra da dietro che lo muove, ma presto il burattino comincia a vivere di vita propria, si entra nel suo universo ed è come se rimanesse da solo. Nel secondo atto qualcosa cambia. Le dimensioni dei burattini diventano più grandi, ma ancora leggermente più piccole di una figura umana. Una dimensione quasi metafisica. Le marionette restano sempre sospese a una quarantina di centimentri da terra e sono mosse stavolta da tre attori, completamente coperti di stoffa nera, persino sul volto, tanto da confondersi con lo sfondo. Gli attori di legno continuano a fluttuare nell’aria. Le loro mosse sono fluide, umane, i loro movimenti così reali che nuovamente l’esercito di ombre si dissolve, la presenza dei manovratori si dimentica. La giovane amante cambia espressione, sbatte le palpebre, ondeggia armoniosa supplicando l’innamorato, si dispera. Si può quasi sentirla respirare. Nel Teatro Argentina gran parte del pubblico in sala non aveva mai assistito al Bunraku. L’incanto e lo stupore hanno riempito lo spazio e reso rarefatta l’aria. Oltre l’esotismo, una concezione estrema dell’arte: bellezza allo stato puro.
Federica Polidoro
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