Giovane danza d’autore. Ammutinamenti a Ravenna
Out e In. Fuori, per creazioni ideate in spazi pubblici e in luoghi urbani con frequente passaggio cittadino; dentro, per creazioni in spazi teatrali tradizionali o in luoghi inediti quali musei, per nuovi confronti col pubblico. Questa la formula che anima “Ammutinamenti”, che definisce la sua identità di Festival di danza urbana e d’autore, giunto alla 15esima edizione e svoltosi a Ravenna a settembre.
All’interno del festival Ammutinamenti si collocano le sperimentazioni della Vetrina giovane danza d’autore, diventata uno dei più importanti appuntamenti della danza italiana. Strumento di promozione per giovani coreografi italiani attivi da meno di cinque anni e non sostenuti da contributi ministeriali, la Vetrina nasce dalla ricognizione che i partner regionali della rete Network Anticorpi XL operano nei rispettivi territori. Un lavoro di scouting che offre ai giovani autori, selezionati attraverso un bando da una commissione coordinata dall’associazione Cantieri e composta dai venti partner di quattordici Regioni italiane di Anticorpi, di potersi confrontare col pubblico, essere osservati e valutati da operatori italiani e stranieri, critici e artisti.
Insomma, un corpo a corpo autentico, un’occasione di crescita per chi intende proseguire nel cammino della coreografia d’autore che, va sempre ricordato, non può prescindere da un rigoroso livello tecnico degli interpreti, dalla qualità dello stare in scena – che significa un sapiente equilibrio tra pratica fisica, musicalità, senso dello spazio, e teatralità – e da un valido e vero pensiero coreografico. E una vetrina che sostiene le generazioni più recenti, è giusto che offra visioni diverse, linguaggi eterogenei, approcci multipli, al fine anche di sondare tendenze in atto e orientamenti del fare danza che possano offrire una panorama articolato dello stato delle cose.
Nei tre giorni di spettacolo tredici danzatori hanno presentato un breve lavoro nella sede ufficiale del festival, le Artificerie Almagià, ma anche al MAR – Museo d’Arte della città, e al Museo Nazionale di Ravenna. Tra i lavori visti, quello della marchigiana Mara Cassiani. Il suo Uno su uno si riferisce a un corpo che agisce nello spazio ristretto di un metro quadro. C’è il segno di un quadrato dai confini neri, sul pavimento bianco, e il corpo che occupa la geometria, proiettato su uno schermo che riprende dall’alto la performance della danzatrice della quale vediamo la schiena raggomitolata a terra – che ricorda le forme dei soggetti pittorici di Bacon – misurarsi e adattarsi con movimenti limitati dentro quelle quattro linee di confine. Più performance che danza, che si esaurisce in breve tempo senza particolare evoluzione.
Un altro quadrato, invece, ma più ampio e creato dalla luce, è lo spazio entro cui agisce la veneta Camilla Monga. Il titolo Iperspazio si riferisce al termine che nella narrativa fantascientifica definisce un varco per raggiungere galassie lontane. Entrando e uscendo dalla zona luminosa, con movimenti titubanti o improvvisi, la danzatrice attiva la musica tracciandola con il proprio movimento dinoccolato o ondeggiante, strisciando a terra o sciogliendosi in fremiti. Indaga così – non in maniera originale – il corpo nello spazio come uno stalker, colui che compie un viaggio catartico all’interno di una “zona”, dove si mettono in discussione le concezioni della vita. Con un suono assordante di campane inizia Fifth corner, coreografia del marchigiano Guido Sarli con la compagnia Umma Umma Dance. Tre gli interpreti, in camicia azzurra. Coi pugni stretti e la testa bassa, avanzano all’unisono. Stessi movimenti, sincronia perfetta. Simili a officianti, a turno e insieme, ingaggiano una danza velocissima con scatti e combinazioni improvvise, salti e attimi di stasi, tra breack e hip-hop combinati intelligentemente col vocabolario contemporaneo. Sono giovanissimi e possiedono buona tecnica e senso coreografico.
Stesso discorso per la Compagnia friuliana Bellanda di Giovanni Leonarduzzi, dotata di straordinaria tecnica acrobatica di matrice hip-hop e breakdance. Con Senza saper né leggere né scrivere i tre performer ingaggiano un complesso intreccio di corpi con l’intento di dare vita a un ingranaggio d’orologio. Si scrutano, si avvincono, si staccano, interagiscono ostacolandosi e aiutandosi. Disegnano così percorsi diversi che si ripetono a spirale, come un continuo girare incessante e ripetitivo delle lancette. Ognuno un ingranaggio funzionante che traccia il proprio percorso condizionando anche quello degli altri. La coreografia ha però momenti d’indecisione, perde senso soprattutto nei momenti di stasi di uno dei componenti. Asciugata di qualche ripetitività e indugio, ne acquisterebbe in forza espressiva. Ma Leonarduzzi ha tutti i numeri per insistere sul versante propriamente coreografico.
Il duo piemontese Andrea Gallo Rosso e Manolo Perazzi nella Piazzetta Gandhi hanno proposto No habla, nel tentativo di coinvolgimento dei passanti per ricreare una relazione che rompa l’indifferenza. Il loro dialogo fisico, dalla gestualità energica, urtante, a tratti poetica, riempie lo spazio urbano riappropriandosene in parte. Uno spazio chiuso, credo, si addica di più al loro comunque lodevole lavoro. La performance Allumin-io (vincitore del premio GD’A Puglia) de Le Specifike di Alessia Lovreglio e Lara Russo è incentrata sull’alternanza di presenza/assenza. La loro ricerca coreografica si serve di un oggetto materico – delle lastre di alluminio che formano una corazza – per esprimere l’essenza del lavoro. Le due performer interagiscono con le lastre a livello spaziale, corporeo, vocale, muovendosi e dando forme mutevoli all’enorme e rumoroso oggetto scomponibile. Ci si aspetterebbe che nella fase finale subentrasse un’evoluzione del gioco scenico e non l’apparizione delle interpreti che, come larve di farfalla, si liberano dell’involucro rivelando il meccanismo interno.
Abbastanza scontata la coreografia di Riccardo Meneghini, del Trentino Alto Adige, che, in Je me souviens, sulla musica del cipriota Demetris Zavros, usa uno sgabello come oggetto evocativo sopra e attorno al quale insegue ricordi, pensieri, ai quali dare un’anima. Ricco d’idee, anche se “già visto”, l’assolo del marchigiano Davide Calvaresi della compagnia 7/8 chili, dalla fantasia ironica e onirica. Con Display osserva e descrive il mondo per raccontare l’inadeguatezza e l’isolamento dell’uomo contemporaneo. Interagisce da dietro una finestra schermo o monitor, entrando e uscendo dalla sua stessa persona proiettata e attraverso l’accostamento di un bizzarro collage d’immagini video.
Infine l’emiliano Manfredi Perego, visto di recente accanto a Simona Bertozzi in Elogio de la folia, qui con Grafiche del silenzio. La sua ricerca coreografica è pura danza che nasce dal desiderio di trasportare il segno grafico di un disegno sul corpo in movimento, avendo come modalità grafica di riferimento il sho-dò giapponese “nel quale non è possibile correggere il segno, ma solamente lasciarlo vivere sulla carta”. Ampie aperture di braccia, febbrili vibrazioni a terra e in verticale, traiettorie gestuali eloquenti, dialettica con lo spazio, ne fanno uno studio dal possibile e interessante sviluppo.
Da tutto quello visto, tra acerbità d’intenti e di contenuti, deboli imitazioni di stilemi postmoderni, si nota una propensione soprattutto al teatro performativo piuttosto che alla danza propriamente detta. Alla danza più speculativa prediletta dai giovani coreografi, si dovrebbe accompagnare una focalizzazione e un maggior approfondimento di quella grammatica del corpo che è il movimento puro, il gesto astratto, dove, anche il raccontare, è possibile attraverso le peculiarità intrinseche della danza.
Giuseppe Distefano
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