Innovazione e tecnologia. Nella “provincia” lirica
Tutta la trilogia Verdi-Shakespeare proposta in tre giorni consecutivi a Ravenna. In una co-produzione dello stesso Teatro Alighieri. Ma non si diceva che era impossibile per tagli economici e difficoltà tecniche? Quando la cosiddetta provincia smentisce i colossi.
Così come nella prosa non sono i teatri stabili a tirare la volata dell’innovazione, nel teatro in musica le grandi fondazioni liriche sembrano aver ceduto il passo a quelli che un tempo venivano chiamati teatri di provincia e che ora hanno il nome ufficiale di teatri di tradizione. Realtà spesso poco note alla stampa d’informazione, situate in città d’arte, in edifici di grande importanza architettonica e con bilanci risicati, si consorziano, utilizzando al massimo l’innovazione tecnologica e mettendo in campo giovani nella speranza che diventeranno famosi.
Il Teatro Alighieri di Ravenna gioca da anni un ruolo importante in questa direzione con spettacoli innovativi (in co-produzione con altri, compreso il Festival di Salisburgo) sia durante la stagione lirica che nella cornice di Ravenna Festival. Ricordiamo Rinaldo e Giulio Cesare in Egitto di Haendel nel repertorio Barocco, I Due Figaro in quello settecentesco e The Rape of Lucretia di Britten e Sancta Sussanna di Hindemith in quello del Novecento storico, ma anche alcune prime assolute di autori italiani come Tenebrea di Adriano Guarnieri.
Quest’anno a chiusura del bicentenario verdiano e per inaugurare (con un paio di mesi di anticipo) le celebrazioni dei 450 anni dalla nascita del Bardo inglese, il Teatro Alighieri ha presentato la trilogia Shakespeare-Verdi (Macbeth, Otello, Falstaff). Andrà una versione probabilmente integrale a Piacenza, ma alcune delle tre opere sono già cartellonizzate a Ferrara, Savona, Lucca e altri teatri. La trilogia dovrebbe girare molto l’anno prossimo (anche al di fuori dei confini nazionali). Si tratta di un boccone prelibato per le celebrazioni shakespeariane nel vasto mondo anglosassone.
Soffermiamoci sugli aspetti drammaturgici e teatrali della trilogia che parte da Ravenna. La caratteristica di fondo il lavoro di squadra: l’orchestra Cherubini concertata da Nicola Paszkowski, Cristina Mazzavillani Muti (regia e ideazione scenica), Vincent Longuemare (luci), Ezio Antonelli (scene), Alessandro Lai (costumi), Davide Broccoli e Sara Callumi (visual design), Catherine Pantigny (coreografia), trenta giovani cantanti provenienti da tutto il mondo con un’età media di trent’anni, e il coro del Teatro Municipale di Piacenza diretto da Corrado Cosati. Gli aspetti più importanti sono l’uso della tecnologia e la tecnica di recitazione. I sovrintendenti di fondazioni liriche tremerebbero nel mettere in scena Macbeth, Otello, Falstaff in una stagione e non penserebbero mai di poterlo fare in tre serate successive a ragione del costo di scene e costumi e dell’impegno di maestri concertatori (ne prenderebbero tre), di orchestra (la vorrebbero doppia). Non parliamo delle stelle della vocalità, difficilmente disponibili ad adattarsi a regie moderne.
Nella trilogia di cui ho visto a Ravenna il primo ciclo (8-10 novembre), gli elementi scenici sono i medesimi per le tre opere: piattaforme, gradini e quinte. Grazie alle proiezioni video e alle luci, si va dal clima ossessivo di Macbeth (ispirato al surrealismo italiano di Alberto Martini, che nella prima metà del Novecento precorse anche l’horror di Dario Argento) alla giustapposizione tra coni di luce molto intensa e coni di buio pesto in Otello, al ricordo nostalgico dei luoghi verdiani (il giardino della villa Sant’Agata, l’interno e l’esterno della casa natale a Busseto, la platea ed i palchi del Teatro Regio) in Falstaff.
L’operazione, al pari di quella che conduce da tre anni La Fenice di Venezia, contraddice chi sostiene che i teatri italiani non possono mettere in scena che un’opera alla volta, e per poche repliche, per la difficoltà dei cambi-scena.
Sotto il profilo musicale non tutto è perfetto. Ad esempio, Nicola Paszkowski tiene ben l’equilibrio tra buca e palcoscenico (ma accede in sonorità nel secondo e terzo atto di Otello) e qualche cantante risulta acerbo. Tuttavia, i ragazzi dell’Orchestra Cherubini si fanno onore con tre partiture difficilissime suonandole in tre serate in successione.
Molto curata la recitazione e la regia con tocchi geniali. Lo è in Macbeth il lungo tavolo dove, seduti ai due capi, il protagonista e la Lady complottano la serie di omicidi e l’evocazione del cenacolo all’apparizione dell’ombra di Banco. In Otello il senso di spirale perversa su cui è impostato il secondo atto. Falstaff è, infine, un vero gioiello anche grazie alla vivacità dell’azione scenica: un critico austriaco in sala (numerosi gli stranieri al primo ciclo) mi ha confessato che per lui è la produzione migliore dell’ultimo capolavoro di Verdi da lui vista e ascoltata in vent’anni. Al calar del sipario, il suggello è arrivato con dieci minuti di ovazioni.
Giuseppe Pennisi
http://www.teatroalighieri.org/
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