Atomizzare i corpi. Wayne McGregor alla Collezione Maramotti
Considerando l’uso di occhialetti per una visione in 3D forniti all’ingresso, e da mettere solo a un certo punto dello spettacolo, l’aspettativa era grande. Wayne McGregor - nome di punta della danza internazionale con la sua compagnia Random Dance, coreografo residente del Royal Ballet dal 2006 - ci ha abituati all’uso dei mezzi tecnologici più avanzati e a connubi con le scienze cognitive per creazioni ammalianti e fuori dell’ordinario alle quali si è dato l’appellativo di cybercreazioni.
Entity di Wayne McGregor, per esempio, nasceva dalla collaborazione con alcuni scienziati cognitivisti per un’indagine sul tema dell’identificazione dell’intelligenza cinestetica, “smontandola” e usando le informazioni ricevute per costruire artificialmente “agenti coreografici intelligenti”: una danza che generava un’architettura o una serie di numeri. Anche nel nuovo Atomos (in prima italiana al Valli di Reggio Emilia per il festival Aperto, e ospite della Collezione Maramotti), il coreografo britannico continua a setacciare il rapporto fra arte e scienza, fra corpo e mente, esplorando i meccanismi dell’azione e il processo neurologico che sottostà ad essi: ovvero, il sentire che guida il movimento, l’inscindibilità tra il gesto e la necessità che lo genera.
È un processo costruito su singole scene e sul singolo movimento del performer che poi si combina con altri. All’iniziale mancanza di contatto tra i danzatori, infatti, segue una connessione – di duetti, terzetti, file frontali, gruppi in cerchio, a terra, in ginocchio con i palmi delle mani in avanti – creando così una successione di diversi stati di tensione e un’energia fisica e mentale in continua trasformazione che apre a smisurate variabili. Pur ammaliante nella rappresentazione grazie anche al light design della scena bagnata da luci nebbiose e colorate, poi stroboscopiche, immerse nella musica ambient e ritmica del duo neoclassico A Winged Victory For The Sullen, il risultato non appaga le attese. E anche l’uso degli occhiali tridimensionale nel momento in cui calano dei piccoli monitor sospesi dove scorrono immagini di fuochi, esplosioni, ciminiere, insetti, stormi di uccelli, numeri, e sagome di danzatori, si rivela fine a se stesso.
Sia chiaro: i danzatori – dai costumi marrone e color carne con chiazze geometriche di verde elettrico – sono tecnicamente eccellenti e non si risparmiano nell’estenuante dinamismo compositivo. Hanno corpi fluidi, aguzzi e snodabili nel distorcere le forme classiche, con movimenti esasperati che sembrano lottare per definire lo spazio, spingendosi e occupando sempre più punti della scena, con ritmi sincopati e convulsi. E sono velocissimi, senza sosta, come l’inflessibile coreografia astratta richiede. L’espansione e la contrazione dei movimenti parte, come un input, sempre dalle braccia, per attraversare, come un moto ondoso, il resto del corpo, declinandosi quindi in molteplici combinazioni; che però non sembrano trovare ulteriore sviluppo emotivo, lasciandoci con un senso di freddezza e, purtroppo, anche di noia. Una struttura coreografica complessa, sanguigna, ma, in ultimo, piatta. Per assenza di emozioni.
Emozioni che ci arrivano, invece, nella performance site specific Scavanger, alla Collezione Maramotti, nel dialogo che i dieci danzatori instaurano nelle vaste sale open space dell’edificio e con le opere della ricca collezione di arte contemporanea lì contenute (che meritano un viaggio a parte).
Nell’itinerante percorso lungo gli spazi espositivi dell’ex fabbrica Max Mara, complice la stretta vicinanza con i performer, la coreografia si fa più intrigante, la visione più coinvolgente, il viaggio più elettrizzante. Come lo sono i danzatori: schegge percorse da scariche elettriche, coi corpi che sembrano pennellate dal segno vibrante. Che ricevono input da una scultura-installazione centrale – un software, quasi un performer aggiunto, virtuale, che capta e disegna sullo schermo gli impulsi di movimento dei danzatori precedentemente registrati – con la quale si relazionano, per poi scomporsi in molteplici direzioni. Introiettando, ciascuno dei danzatori una delle opere d’arte, prolungano questo processo di incorporazione e di immaginazione nel loro movimento astratto.
E noi li seguiamo nel loro raggrupparsi, strisciare lungo le scale, sostare, respirarci accanto, poi sbrigliarsi in assoli o duetti, accanto o attorno alle opere di Mark Manders, Eric Swenson, Claudio Parmiggiani, Anselm Kiefer, Kiki Smith, Mark Dion e altri, in un gioco di attrazioni e respingimenti che fissano per un momento il corpo come un’architettura vivente, pronta a sciogliersi e scomparire, per rimanere nella nostra memoria.
Giuseppe Distefano
http://www.iteatri.re.it/
http://www.collezionemaramotti.org/
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