Rossella O’Hara secondo Antonio Latella
Per il secondo anno consecutivo, Antonio Latella si aggiudica il premio per la miglior regia. Questa volta il Premio UBU arriva con “Francamente me ne infischio (Tara, Match, Black)”, libera rielaborazione del romanzo e del film “Via col vento”, che ha visto trionfare anche come migliori attrici le tre protagoniste dello spettacolo – Caterina Carpio, Candida Nieri e Valentina Vacca – votate come “corpo unico” per l’affiatamento e la moltiplicazione dei personaggi interpretati.
Qualsiasi autore o testo affronti, sia classico, sia contemporaneo, Antonio Latella crea sempre un’inedita, spiazzante lettura scenica, un nuovo approccio, anche stilistico, di respiro europeo, che scardina precedenti costruzioni e apre a ulteriori prospettive. Non fa eccezione, anzi, ne conferma la genialità, lo spettacolo Francamente, me ne infischio, la celebre battuta con la quale Clark Gable, ovvero Rhett Butler, si congeda da Vivien Leigh, ovvero Rossella O’Hara, nella sequenza finale del film Via col vento.
Il romanzo di Margaret Mitchell è diventato oggetto di riflessione e riscrittura totale da parte di Latella con la consulenza drammaturgia di Federico Bellini e Linda Dalisi e delle magnifiche attrici coinvolte nel progetto – Caterina Carpio, Valentina Vacca, Candida Nieri – che nasce da un processo di condivisione e creazione collettiva. Una pratica teatrale che fa del corpo dell’attore una mappa di segni, di ricerca gestuale, coreografica, musicale che diventa alfabeto teatrale per raccontare, qui, un’epopea. Basti vedere, una scena per tutte, l’impressionante potenza fisica ed emotiva con la quale Caterina Carpio, con movimenti ritmati si toglie, scuoiandosi, il costume da scimpanzé; e, in controluce, bevendo whisky da un bottiglione, spruzza il liquido su una distesa di bandiere a stelle e strisce sopra le quali, calpestandole, ingaggia, nuda, una scatenata danza tribale. Come se non bastasse, all’estenuante prova fa seguire una lunga invettiva, una sorta di decalogo contro la razza nera e i nativi indiani, puntando minacciosa una pistola sulle due donne ai lati e sul pubblico.
Lei, ancora una volta, è Rossella O’Hara – simbolo dell’America, interpretata a turno dalle tre attrici sempre presenti in scena – che, qui, incarna l’America bianca, violenta, sfacciata e nostalgica, dello sfruttamento e dell’oppressione, dell’eccesso. Se in Black – questo il titolo del terzo dei cinque quadri, Twins, Atlanta, Match e Tara – Rossella rivendica la nuova razza padrona, nei precedenti e successivi capitoli ripercorre il grande sogno americano attraverso il suo stesso mito: la nascita e la successiva distruzione di una nuova figura femminile che, all’inizio, s’impone con veemenza per essere poi annullata, costretta a diventare simile al maschio per poter competere tra gli uomini.
È l’America delle ambizioni e delle contraddizioni, del puritanesimo e della spregiudicatezza, delle molteplici identità, del progresso e della libertà, del denaro, della schiavitù, della guerra, delle lotte di classe, dell’industria e del petrolio. Elementi che ritroviamo come citazioni estrapolate da alcune pagine intere del libro, ma soprattutto nella riscrittura integrale effettuata, che diventa anche uno straordinario compendio visivo e musicale d’arte contemporanea con gli archetipi dell’immaginario colto e pop americano. Tra citazioni e retorica, ironia e visionarietà, troviamo Marylin e Madonna, Armstrong e lo scimpanzé di Kubrick di 2001 Odissea nello spazio, Toni Morrison e Angela Davis, i Simpson, Barbie e Joker, King-Kong e Hollywood, la mela di Apple e le pin-up.
È Valentina Vacca nel primo capitolo Twins con le fattezze di bambina, a segnare il prologo della Rossella capricciosa, inquieta, volubile, perennemente insoddisfatta, che non accetta le sconfitte e non si rassegna, dando inizio, con l’irrompere dei gemelli Tarleton alla demolizione del doppio. In Atlanta, in un paesaggio abitato da sciami di mosche simboli della morte che tutto avvolge, Candida Nieri è Rossella vestita a lutto e impegnata nella festa per raccogliere fondi per le vittime della guerra di Secessione. Scende fra il pubblico per scegliere il suo uomo, portarlo sul palcoscenico e ballare, sognando di voler essere una farfalla. E intanto scorre da una mano all’altra la tazza del thè, oggetto ricorrente come l’emblematica casa, “all’origine di tutte le cose”. Questa, moltiplicata in tanti modellini in miniatura – le abitazioni distrutte dall’incendio durante la guerra del 1861 –, somigliano a gabbie di uccelli, o a case di bambole, che diventeranno sempre più grandi fino a essere, nel finale di Tara, una sola casa (prigione e luogo idilliaco) che ingombra l’intero palcoscenico.
Una vera e propria installazione performativa, e con una potente colonna sonora, dentro la quale ritroviamo le tre Rosselle invecchiate, ma sempre giovani e immutate, in lunghi abiti verdi. Dapprima impegnate in una meticolosa tessitura di bandiere tra le grate della struttura della casa fino a coprirne la vista dell’interno; poi, quando lo scimpanzé-guardiano che si aggirava intorno (lo stesso Latella), avrà divelto le bandiere, le scopriremo in un lentissimo rito del thè che sancisce il ritorno all’ordine, alle radici, alla terra, a se stessa, in quella casa-rifugio, luogo della memoria. Una voce fuori campo ricorda i sogni infranti, i tre mariti – che avremo visti in Match, il capitolo solo dialogato attorno ad un tavolo –, i figli bistrattati, e la speranza ancora di un futuro felice che forse arriverà domani. Perché “Domani è un altro giorno…”.
Grande tour de force per le tre bravissime interpreti che, in cinque ore di spettacolo, non si risparmiano in energia, dando prova di grande talento e abnegazione.
Giuseppe Distefano
http://www.antoniolatella.com/
Prossimi spettacoli: Teatro Argentina, Roma, 5 gennaio // Teatro Ventidio Basso, Ascoli Piceno, 29 marzo
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