L’affaire Ilva a teatro. Parlano gli Instabili Vaganti
Intervista a Nicola Pianzola e Anna Dora Dorno della compagnia teatrale Instabili Vaganti. In merito allo spettacolo “L'Eremita contemporaneo - Made in Ilva”. Una questione politica e sociale calca le scene.
Il vostro spettacolo intende essere “una critica all’alienante sistema di produzione contemporaneo”. Perché nel titolo usate il termine “eremita”?
Anna Dora Dorno: Questa scelta deriva da un percorso di ricerca che portiamo avanti dal 2008 nell’ambito del progetto Running in the Fabrik, che tra gli altri risultati ha dato vita allo spettacolo L’Eremita contemporaneo – Made in Ilva. Distacco dalla società, solitudine, alienazione, meccanizzazione e percezione della fabbrica come un non-luogo del contemporaneo sono stati i temi che hanno ispirato l’intero progetto. Un giorno, mentre ascoltavo le testimonianze di un ragazzo che lavorava all’Ilva e che raccontava di dover partire ogni mattina alle sei da uno dei paesi in provincia di Taranto per tornare a casa solo la notte, senza di fatto aver visto la luce del sole, in una sorta di “inferno contemporaneo”, ho deciso che il titolo dello spettacolo sarebbe stato L’Eremita Contemporaneo.
Perché proprio l’Ilva?
Anna Dora Dorno: Quando abbiamo iniziato questa ricerca eravamo ancora lontani dall’esplodere di quella vicenda. Abbiamo seguito un percorso a ritroso che ci ha portato dall’universale al particolare, dalla “Fabbrica” all’Ilva. Ciò mi ha trasportato nel passato, nei luoghi in cui sono cresciuta: il paesaggio del golfo di Taranto al tramonto, il mar piccolo e l’Ilva che vi si staglia davanti sono immagini impresse nella mia memoria. Ascoltavo spesso i discorsi dei lavoratori dell’Ilva, tra cui alcuni miei parenti e amici, che in mancanza d’altro tentavano di lavorarvi e che il più delle volte scappavano inorriditi, emigrando in cerca di occupazione.
In che modo avete intrecciato le testimonianze degli operai di quella acciaieria ai testi poetici di Luigi Di Ruscio?
Anna Dora Dorno: Mi sono concentrata sulle testimonianze dei ragazzi che lavoravano all’Ilva per mancanza di alternative, che mi raccontavano di sognare quegli ambienti tutte le notti: amici che poi sono scappati in altre città d’Italia e d’Europa. Mi ha colpito il diario di un operaio che scriveva poesie, proprio come il “poeta operaio” Luigi Di Ruscio. Il linguaggio poetico lo trovo più affine al nostro modo di lavorare, perché si basa su aspetti emotivi e non su dati e percentuali: mi interessava trattenere emozioni, più che pareri o biografie.
La precisione della partitura fisica del performer in scena è funzionale ai contenuti e alle emozioni che voi dichiarate di “voler comunicare”?
Nicola Pianzola: La mia partitura in scena è espressione di un processo in atto, di un corpo in vita che reagisce a una serie di stimoli e risponde biologicamente alle brutture di un meccanismo imposto. Lo spettatore è libero di entrare per empatia in questa partitura e di tesserne un proprio significato.
Parlate della volontà di “reagire al processo di brutalizzazione imposto dalla società”. A quali maestri del Novecento teatrale vi siete riferiti, sotto questo specifico aspetto?
Nicola Pianzola: In questo percorso abbiamo incontrato maestri che hanno da sempre ispirato il nostro lavoro e ci hanno aiutato a teorizzarlo. Quando abbiamo presentato lo spettacolo a Napoli è stata una recensione dal titolo Biomeccanica contemporanea degna di applausi a sussurrare al nostro orecchio il nome di Mejerchol’d. Il nostro lavoro sull’attore affonda le sue radici nel teatro di Jerzy Grotowski, per poi intraprendere un percorso di attualizzazione della tradizione e del sapere dei maestri del Novecento. C’è un altro grande nome che la critica ha citato nel recensire questo spettacolo: quello di Charles Chaplin.
L’Eremita contemporaneo – Made in Ilva esiste già da qualche anno. Come si è evoluto, replica dopo replica?
Anna Dora Dorno: Il primo nucleo dello spettacolo è nato in residenza in una piccola ex officina, dove abbiamo sconfinato in platea portando l’attore a stretto contatto con gli spettatori. Nel 2012, in procinto di debuttare allo Stockholm Fringe Festival, in Svezia, l’accendersi del caso Ilva ha rinnovato la necessità di farsi portavoce di qualcosa che ci sentivamo di avere, nel nostro piccolo, aiutato a emergere: è così nata la seconda parte del titolo, Made in Ilva.
Nicola Pianzola: Replica dopo replica siamo giunti all’ombra delle ciminiere che tanto evochiamo nel nostro spettacolo, portando lo spettacolo nel rione Tamburi di Taranto, di fronte ad un pubblico composto in gran parte da operai ed ex operai dell’acciaieria.
Che cosa questo spettacolo non può contenere? Che cosa non può proprio dire?
Nicola Pianzola: Spesso il pubblico ci ha confessato di essersi trovato spiazzato di fronte a quello che pensava essere un monologo di teatro civile, dove un attore racconta una vicenda, facendosi forte di statistiche, dati e numeri. Il nostro è stato definito “teatro civile emozionale e fisico”: anziché riportare una situazione la vive sulla propria pelle e la fa vivere allo spettatore. Non può contenere un messaggio di speranza, come ci è stato consigliato da politici preoccupati delle reazioni che lo spettacolo avrebbe potuto provocare, specialmente a Taranto. Non può mentire. Può solo essere una finestra aperta su questo dramma.
Michele Pascarella
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati