Ritmi beckettiani. Sul Trittico di Krypton
Alain Badiou ha liberato Beckett da una lettura esistenzialista. Giancarlo Cauteruccio, con la Compagnia Krypton, ha contribuito a diffonderne stimoli e intuizioni. Il regista beckettiano per eccellenza nell’analisi di Piersandra Di Matteo.
Samuel Beckett non è “uno scrittore dell’assurdo, della disperazione, del cielo vuoto, dell’incomunicabilità e dell’eterna solitudine, un esistenzialista, insomma” ma la sua è una lezione di misura e una ricerca sulla scaturigine dell’enunciazione alle prese con la postura del soggetto, un artigiano di coraggio e cattiveria che si compie nelle fibre del linguaggio e chiama in causa il lavoro dello scrittore.
Nel suo sintetico e fulminante Beckett. L’inestinguibile desiderio, Alain Badiou compie questo decisivo atto di liberazione, scaglia lontano la pietra di inciampo di ogni attraversamento dell’opera del genio irlandese, divenendo risuonatore perfetto per entrare nell’universo di Giancarlo Cauteruccio, regista beckettiamo per eccellenza se pensiamo all’attenzione e allo studio che il fondatore della Compagnia Krypton ha dedicato all’autore nel corso della sua vicenda artistica. È infatti più di un sodalizio quello che lega Beckett e Krypton, realtà che maggiormente in Italia ha voluto e saputo fare i conti con l’esperienza drammaturgica più radicale e insorpassata del secondo Novecento. Il bel libro, di recente uscito, Teatro Studio Krypton. Trent’anni di solitudine (per i tipi di Titivillus) di Simone Nebbia – incorniciato da due penetranti conversazioni, una “politica” e una “poetica” con il regista – nel ripercorrere la trentennale storia della compagnia, si sofferma anche a richiamare la centralità della ricerca beckettiana, le ragioni del suo sopraggiungere dopo la fase di sperimentazione tecnologica e ne rincorre le tappe a partire dal lontano Forse. Uno studio su Samuel Beckett del 1989, l’indagine compiuta con L’ultimo nastro di Krapp, prima interpretato da Massimo Verdastro nel 1993 e dieci anni dopo dallo stesso Cauteruccio, l’affondo di Giorni Felici con Marion D’Amburgo nel 1995 fino al culmine della riscrittura in calabrese di Finale di partita traslato in U juocu sta’ finisciennu, di recente reinventata in italiano.
Uno dei momenti di questa ricerca è il Trittico Beckettiano, andato in scena con successo per la prima volta nel 2006, ripresentato ora alla sala Interaction dell’Arena del Sole di Bologna, componendo, senza soluzione di continuità, un discorso che unisce i tre drammi brevi: Atto senza parole I, Non Io e L’ultimo nastro di Krapp. Se qualcuno segnala il rischio dell’accostamento forzato dei drammi brevi di Beckett, questo trittico dimostra di tessere le tre opere scandendo, nella loro singolarità, una scrittura che presta attenzione agli aspetti visivi, alla costruzione millimetrica dei personaggi tra immobilità e accensione cinetica, portando con sé, ognuno a proprio modo, quella strategia del togliere che si dà solo costruendo.
Nato dalle passioni giovanili per le comiche mute di Buster Keaton, Ben Turpin e Harry Langton e suggestionato dalle doti del ballerino Mendel, Atto senza parole I è un “palinsesto” di istruzioni in cui una figura d’uomo (Massimo Bevilacqua) è messa alla prova dei suoi riflessi condizionati e portata a verificare il confine tra condizionamento alla volontà e all’istinto. Cauteruccio opta per una scena pienamente illuminata e per un dispositivo svelato, dove la macchina scenica è fatta oggetto della sua manifesta meccanica funzionale. Deus ex machina dell’azione mimica è un tecnico che, perimetrando la scena, innesca il dispositivo: muove le corde che corrono su un complesso gioco di carrucole, alza e abbassa le scatole, sposta un ramo stilizzato e smontabile, cala le forbici con cui tagliarsi le unghie, e una tanica verde (non la caraffa) con su scritto acqua che rimane inattingibile, fa discendere una corda, con cui invano potersi impiccare.
Vestito con un abito bianco logoro dall’usura, la figura incespica. Accorre. Precipita. Inciampa. Resta immobile. Piega e spiega il fazzoletto. Spazzola il vestito. Impila i cubi. Obbedisce allo stimolo dei colpi del fischietto provenienti dai lati dello spazio che fanno da richiamo e ordine, indicando i limiti dell’area concessa all’azione, scandita dalla sonorizzazione di passi e movimenti, anche i più minuti. Il suo compito prescrittivo – stretto nella dinamica invito-accettazione-rigetto – è non raggiungere mai l’obiettivo. Come nelle migliori gag. Ma qui il fallimento in nessun modo fa equipaggio con il caso. I contraccolpi sono interiorizzati, cronicizzati nel comportamento e al contempo predisposti. In questa partitura non si respira una disperazione fredda, piuttosto un umorismo impassibile, tutto sbilanciato in quella indecidibilità che Cesare Segre sentiva oscillare tra “non volere” e “non voler volere” e su cui alita un volere esterno che tutto muove.
La soprano Monica Benvenuti, sperimentatrice della voce in diversi linguaggi musicali, è Bocca di Non Io, dramaticule beckettiano del 1972, che si staglia nella nostra memoria nella versione filmica con Billie Whitelaw. La voce che promana da bocca, unico punto illuminato della scena, diventa il personaggio. All’esatto opposto dello schema ventriloquo che sottrae la bocca per spaziare la voce, qui l’ossatura dentale, la polpa delle labbra, la cavità buccale e la virulenza articolatoria si prendono tutta la scena staccandosi dal corpo e abitando lo spazio come uno spettrale oggetto parziale, potremmo dire con Mladen Dolar lettore di Lacan. La voce di questa vecchia, come mai nata, ossessionata da ronzii e supermercati, che parla di sé come di un’altra “Lei”, è un oggetto sospeso nello spazio scenico: si autonomizza dalla dramatis personae, non inscenando più un corpo parlante ma il solo orifizio buccale. Questo organo (fonatorio) senza corpo si dispone a un parlare per frasi convulse, riprese, si ripara dietro accensioni in un profluvio prosodico che impenna in richiesta di senso, si concede sospensioni tagliate ritmicamente sulla superficie verbale di un testo ricondotto alla verità di una voce presa in parola che non tollera nostalgia per il corpo. Manca del copione beckettiano, in questa versione di Krypton, la presenza di Auditore, che con il gesto di disarmata constatazione, fa da contrappunto a quel dolore della nascita, dell’essere alle prese con il sé così consonante con quell’“unspeakable home” a cui si anela in Neither.
Un passaggio nel buio e si piomba in quella “tarda sera, nel futuro” nella tana di Krapp (Giancarlo Cauteruccio stesso), cerchiata da una gettata di luce bianca. L’ombra che incombe come morte tutt’intorno, aureola quel “vecchio sfatto”, miope, duro di orecchi, mangiatore di banane e bevitore di whisky, seduto davanti al suo tavolino sovrastato da scatole di egual misura e numerate. Piene di “bobiiine”, come dice lui abbandonandosi a un godimento fonico tutto infantile. Ciò che conta in questo schema è il magnetofono, e il suo corredo di nastri, funzionali a compiere un viaggio in un altrove temporale, il suo passato. Nell’alternarsi delle voci di Krapp, quella di trent’anni prima che proviene dal nastro magnetico e quella del tempo presente, si ripropone un’inedita “struttura pseudocopulare” (come le pedine di Hamm e Clov) ora inscritta nelle due fonti di emissione che spaiano il soggetto nel confronto immediato tra i vari sé dell’uomo. Armai ultrasettantenne, crollati i sogni di diventare uno scrittore di successo, il divario tra le ambizioni passate e la loro mancata realizzazione nel presente – tema già in Beckett lettore di Proust – sono tutte racchiuse in un dialogo scomposto tra le due voci, squilibrate tra le allusioni escrementizie (“boccone rimasticato e merda di piombo”), lemmi rari e oramai irriconoscibili (“vedovezza”) dell’eloquio di ieri e i sospetti acustici dell’oggi. Il Krapp di Cauteruccio, cadenza calabrese e andatura laboriosa, manca di abilità manuale, è irascibile e impaziente: incorpora (e non intellettualizza) declino fisico e mentale. Il materiale registrato e catalogato, ma non rielaborato dalla memoria, è divenuto modello assoluto d’occupazione del tempo. Ha ragione ancora Badiou quando parla di “volontarismo del ricordo” come tattica di “sperimentazione dell’alterità”. Su tutto aleggia un humor radicale che non lascia scampo al disprezzo per il desiderio di poter – persino sul finire della vita – “essere ancora… essere ancora…”.
Piersandra Di Matteo
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