Otello bianco e siciliano. La riscrittura di Luigi Lo Cascio
Luigi Lo Cascio - autore, regista e interprete nel ruolo di Iago - riscrive la tragedia di Shakespeare per raccontare un altro Otello, dove i personaggi maschili parlano siciliano mentre solo Desdemona si esprime in italiano, e ambientando la storia in un posto qualunque del Mediterraneo.
Bianco e non moro si era già visto. Ma un Otello che parla siciliano non si era mai sentito. Che esprime il suo sentimento di amore e di odio, di vendetta e di rimorso in una lingua dal suono arcaico come il dialetto siciliano, rendendo con esso tutta la gamma di passioni che divorano il celebre personaggio shakespeariano, non l’avevamo mai udito.
A dar prova di quanto un classico possa essere approfondito, manipolato, rielaborato a seconda della riflessione e della capacità di scavo di chi lo affronta, è Luigi Lo Cascio. La sua riscrittura del gran testo del Bardo rappresenta un’operazione rivoluzionaria a tutti gli effetti. Rischiosa, ardita, forse ambiziosa, ma di sicuro riuscita grazie allo Stabile di Catania, produttore insieme all’ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione. Spettacolo potente per l’idea, per l’allestimento e per i quattro bravissimi interpreti, ciascuno con una ben precisa personalità. Seppur restringendo il campo d’azione, oltre a esserci, nella sostanza, tutta intera la vicenda del Moro di Venezia, di Iago e di Desdemona, c’è soprattutto un’inquietudine tutta moderna che indaga l’uomo, l’origine dell’odio, i moventi dell’amore cieco che arriva a eliminare l’oggetto amato per troppo amore.
L’affondo intellettuale di Lo Cascio sulla solitudine dei personaggi è dentro i meccanismi misteriosi e oscuri della mente maschile, incapace di vivere il sentimento d’amore senza quelle sicurezze create dall’uomo stesso e vissuto secondo le sue proprie necessità. L’attore e regista, nel ruolo di Iago, oltre ad aggiungere liberamente pensieri e parole, lo rende anche nel ritagliarsi una confessione che vorrebbe giustificare l’origine di quella misoginia e di quell’odio “infinito per davvero, che mai si sazia”. Installa così, a metà spettacolo, una cornice al centro, quasi un confessionale, dentro il quale, seduto, racconta il trauma infantile subìto per la scoperta della madre a letto con un uomo che non era suo padre (ma risulta superflua questa testimonianza, dato che non aggiunge sostanza all’anima fosca del perfido e, forse, riduce la motivazione nel circostanziare la causa solamente a un tale episodio).
L’inizio della storia è dalla fine, dalla tragedia già compiuta, con un soldato-narratore (Giovanni Calcagno) che introduce – e via via racconta, “per il riscatto della memoria” –, la vicenda del suo amato generale affinché non sia tramandata in maniera falsata. Testimone degli avvenimenti, sta in disparte, ai bordi della scena o attraversandola, a dirci i fatti, a raccordarli, ad aprire e mostrarci la visione di essi, a chiedersi come sia stato possibile che “l’onesto Iago” sia potuto giungere a tanto odio. Ce lo consegna fatto prigioniero percorrendo la platea tenuto legato a una corda, mentre sciorina pensieri personali sulla vendetta, sulle torture, sulla malevolenza, sui supplizi. E intanto scorrono disegni animati di strumenti di tortura, di vermi, d’inquietanti dettagli.
Un’altra, bellissima, sequenza di disegni animati, proiettata ad apertura di sipario con un bianco lenzuolo che scende nella claustrofobica scena illuminata dalle luci di Pasquale Mari, apre l’allestimento raffigurando l’emblematico fazzoletto della gelosia assassina, introducendoci così nella storia col racconto dialettale della madre di Otello che, udendone solo la voce, descrive il valore di quell’oggetto ricamato, tessuto, disegnato, che svolazza e passa di mano in mano, che diventa lettera di parole d’amore tra il condottiero e la nobile veneziana. Ed è aristocratica, Desdemona, oltre che nell’animo, nella limpida pronuncia in italiano; mentre il parlare degli altri nell’idioma siciliano è, per contrasto, aspro e duro.
Figura pura in un mondo contaminato dalla violenza dei sentimenti, Desdemona coltiva la passione delle arti marziali per emulare e piacere all’amato (e Valentina Cenni è perfetta, oltre che nel dare corpo e voce alla cristallina giovane sposa, anche nella fisica pratica marziale con tanto di spada volteggiante e netta che fende l’aria). Alla confessione del suo sogno, coltivato fin da piccola, di diventare soldato, segue quella di Otello che racconta del giovane fratello morto nel deserto combattendo, e del suo patimento, e tutte quelle magnifiche imprese di guerra che fecero innamorare la giovane sposa. Qui Vincenzo Pirrotta sfodera la sua tipica tecnica del “cuntu” e di puparo per narrare gesta di battaglia, alternando sfumature d’amore virile. Ed è possente, oltre che nella statura, nel rendere il suo Otello vigoroso, tenero, infantile, dando spessore alle parole che pronuncia. Ancor più nel crescere della gelosia, roso dal tarlo del mostro dagli occhi verdi insinuatogli dall’“amico Iago”. Ed è cupo il livore anche esterno con le pareti di grigie coperte che s’alzano e le figure mostruose proiettate che assillano la sua mente ormai contaminata dal sospetto del tradimento.
L’oscura scatola scenica s’illuminerà di bianco col lenzuolo del talamo steso sulla lunga scalinata che Otello e Desdemona saliranno per il compiersi dell’uxoricidio, con lei che gli porge il coltello. Ma prima del gesto mortale c’è tempo per un ulteriore svelamento raccontato dal soldato: di un sogno di Otello che desidera andare sulla Luna aggrappato all’Ippogrifo. Lo Cascio, con una bella intuizione attinta al poema dell’Ariosto, identifica la follia di Orlando con quella di Otello, riprendendo l’episodio di Astolfo. Cadute le quinte del palcoscenico, eccolo diventato folle e bambino, approdato sul pianeta alla ricerca della perduta Desdemona: perché “le anime delle donne che ammazziamo sulla terra si ritrovano sulla Luna”, lì dove ci sono tutte le cose che si perdono in Terra. Vestito elegante e col fazzoletto finalmente rintracciato, vuole costruire all’amata un altarino per farsi perdonare. Ad accompagnarlo in quel viaggio irreale è il fedele soldato che, infine, lo prende per mano per condurlo via. E, di spalle, si fermano intanto ad ammirare le stelle.
Giuseppe Distefano
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