Siracusa: sulla scena di Arnaldo Pomodoro rivive il mito dell’Orestea
L’Istituto Nazionale del Dramma Antico celebra il secolo del ciclo di rappresentazioni classiche al Teatro greco. Allestendo le vicende della saga degli Atridi, con la doppia regia di Luca De Fusco e di Daniele Salvo.
Passioni, assassinii, vendette, sangue e politiche intrecciati insieme impregnano la saga degli Atridi. Quella di cui sono protagonisti Agamennone e Clitennestra, Ifigenia, Oreste ed Elettra. E che Eschilo, con la sua parola di fuoco, ci ha raccontato in una trilogia sublime, l’Orestea. Vi troviamo i temi della grande tragedia, l’ineluttabilità delle leggi divine, l’ereditarietà misteriosa del delitto, l’intimo contrasto tra la voce della natura e un ordine superiore, l’adempimento di una legge di giustizia nelle umane vicende.
A celebrare i cento anni dell’INDA – Istituto Nazionale del Dramma Antico, torna nella cavea del teatro greco di Siracusa il capolavoro eschileo, nella traduzione di Monica Centanni, e affidato a due diverse menti registiche: Daniele Salvo e Luca De Fusco. Contenitore unico della celebre saga è la scenografia di Arnaldo Pomodoro memore di una Orestea, riscritta in siciliano da Emilio Isgrò, sui ruderi di Gibellina nel 1983, in cui forgiò le spettacolari Forme del mito. Il suo segno astratto e materico è subito riconoscibile. Lo scultore, che firma anche i costumi arcaizzanti, immerge le storie in un paesaggio di rovine costituito da una superficie accidentata di frammenti architettonici (e di sabbia per Agamennone), con un grande porta dorata al centro, sul fondo, che identifica la città di Argo. Portale che, alzandosi e abbassandosi, aprendo e chiudendo le sue ante, definisce una soglia dal valore memoriale e metaforico che segna una linea di confine tra dentro e fuori, tra sogno e realtà, tra vita e morte.
Sembrerebbe una landa spaziale, un pianeta dopo la distruzione dalla cui sabbia emergono lentamente, dopo una lunga sepoltura, prima i cittadini ormai anziani di Argo, “vecchi corpi inutili” lasciati lì “al momento di partire per la guerra… e qui siamo rimasti”; e subito dopo, da una seminterrata imbarcazione, e anch’egli dallo svernamento, il sopravvissuto Agamennone. Titolo storico che ha tenuto a battesimo il ciclo siracusano nel compimento del secolo di vita, l’Agamennone di De Fusco ha una sua coerenza nel mantenere una messinscena misurata senza forzate attualizzazioni, ma risente di una certa lentezza, di staticità nei personaggi e soprattutto nel Coro, e di intrusioni inopportune di danze da odalische. Interpreti tutti autorevoli: prima fra tutte Elisabetta Pozzi, ovvero Clitennestra, Massimo Venturiello, Agamennone, Andrea Renzi, Egisto, Mariano Rigillo, l’Araldo, Giovanna Di Rauso, Cassandra.
Unificate in un unico spettacolo Coefore ed Eumenidi, Daniele Salvo ne fa, secondo il suo collaudato stile, una sintesi di grande spettacolarità, ma a tratti eccessiva come nel gran finale di comparse con bandiere e stoffe rosse, fiaccole, fumi e luci colorate, una gran bilancia per le votazioni e un gran sole issato per pochi secondi; e ha nella musica di Marco Podda (che non risparmia folate melodiche da climax cinematografico) un punto di forza. Così confezionato, la presa sul pubblico è assicurata.
Le “portatrici di libagioni” del titolo giungono sulla tomba del sovrano, al seguito di Elettra, inconsolabile orfana. Dalla morte di Agamennone sono passati sette anni, poco meno da quando fu allontanato dalla città il figlio Oreste. Il quale ora, fattosi uomo, torna a casa sul sepolcro del padre in compagnia dell’amico Pilade, riabbraccia la sorella, e con lei giustizierà, come ha comandato Apollo, la loro madre e il ganzo di lei, Egisto. C’è una sofferta compattezza subito nella sequenza iniziale grazie al soffio vitale dei due giovani fratelli ritrovati e trepidanti sorretti da un’ispirazione ribelle che invasa Oreste e contagia la spaurita Elettra, mentre le schiave straniere del Coro vibrano come le baccanti di un culto nuovo. Se Coefore pone in maniera nitida la questione della giustizia come correlativo della democrazia, tocca a Eumenidi sciogliere la contraddizione nel superamento della legge ancestrale della vendetta con l’istituzione del primo tribunale democratico. Oreste, protetto da un Apollo che gioca a fare il figlio prediletto di Zeus, inseguito da un coro di Erinni, le divinità della vendetta, giunge ad Atene dove la dea che le dà il nome accoglie inseguito e inseguitori e imbastisce un foro per giudicare il matricida. E sappiamo che grazie al suo voto Oreste verrà sciolto dalla maledizione delle Erinni, e che queste, divenute le benevole protettrici della città, usciranno di scena accompagnate dal popolo in festa verso la nuova dimora sotterranea destinata al loro culto.
Come vuole il testo il matricidio avviene in diretta, e il regista non risparmia la visione granguignolesca elargendo effetti di sangue lordato sui volti e negli abiti. Se Elisabetta Pozzi trova un gran momento nel dolore di madre ferita alla notizia della finta morte del figlio, che la ucciderà dopo aver esitato davanti alle invocazioni di pietà di lei a seno nudo; se Ugo Pagliai, Apollo, tuona dall’alto del suo dolly trasportato a vista (uno stelo un po’ più alto gli avrebbe dato, forse, maggiore autorità) con freccia in mano che non scoccherà; se Piera Degli Esposti è un’Atena ieratica nei toni; e, ancora, Francesca Ciocchetti, di grande tensione drammatica, dà alla sua Elettra passione autentica, è il bravissimo Francesco Scianna la vera rivelazione. Strappato momentaneamente al cinema, dimostra le sue vere qualità in scena. Egli versa nel suo dinamico Oreste l’impegno tragico e giovanile che possiede, sensitivo, furente, travagliato, di febbrile ardore, fino alla pacatezza di supplice nella consapevolezza della sua colpa che lo vedrà infine assolto.
Giuseppe Distefano
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