Il Maggio Musicale ha settantasette anni. E ancora molta strada da fare
Progenitore del Maggio fiorentino, il Calendimaggio era tutto ciò che rende lieto l’animo dell’uomo: canto, gioco, danza, amore, mensa, spettacolo. Uno spettacolo che continua ad altissimo livello nei maggiori teatri cittadini nel corso del Maggio fiorentino e che prende vita anche in altre forme. Nel mese di maggio regnavano e regnano sovrani i profumi e i colori dei fiori nelle campagne intorno a Firenze così come ancora oggi il cuore della città.
Il Maggio Musicale Fiorentino ha settantasette anni ma viene da molto più lontano. Le sue origini sono nel Calendimaggio, antica festa della primavera: si celebrava infatti il primo giorno di maggio e iniziava in effetti il 30 aprile (quando da anni ha luogo la prima sera del festival). I lieti tradizionali conviti di Calendimaggio accoglievano intorno alle mense, di popolo e di signori, parenti, amici e vicini che vi intervenivano.
In epoca moderna, il Maggio Musicale Fiorentino è, insieme a quello mozartiano di Salisburgo e a quello wagneriano di Bayreuth, il più antico e prestigioso festival europeo di musica classica. Fondato nel 1933 da Vittorio Gui – già fondatore nel 1928 della Stabile orchestrale fiorentina, destinata a diventare l’Orchestra del Maggio – come manifestazione triennale, dal 1937 diventa un appuntamento annuale, meta obbligata per gli amanti della musica. Fin dalle sue origini, il Maggio Musicale s’impone all’attenzione mondiale per l’originalità delle scelte culturali: l’importanza della “visualità” nell’opera lirica, garantita dalla collaborazione dei maggiori registi teatrali e cinematografici (Visconti, Ronconi) del nostro secolo e di pittori e scultori di fama come scenografi e costumisti (de Chirico, Kokoshka), insieme all’impostazione musicale che propone negli anni una costante esplorazione del Novecento, dalle avanguardie storiche fino alle esperienze più recenti.
La presenza attiva dei compositori si unisce alla riscoperta di opere e autori del passato e all’approfondimento di alcuni momenti della storia della musica, grazie a edizioni del festival tematiche, quali il Maggio rossiniano del 1952 e quelli del 1964, 1994, 1995, dedicati rispettivamente all’Espressionismo, al Novecento storico ed al primo Romanticismo. La partecipazione di grandi interpreti – direttori, solisti e cantanti – permette da sempre la realizzazione di vere e proprie “riletture” delle partiture e delle opere più tradizionali, grazie all’apporto di regie e scenografie innovative.
Il Teatro Comunale ha origine dal Politeama fiorentino, un’arena all’aperto progettata nel 1862 da Telemaco Bonaiuti; parzialmente distrutto due volte – nel 1944 da un bombardamento e nel 1966 dall’alluvione – il Comunale viene completamente rinnovato, a simboleggiare la volontà di rinascita e l’ impegno civile della città. Sul palcoscenico del teatro si sono alternati i nomi più prestigiosi della musica di questo secolo: direttori quali Vittorio Gui, Bruno Walter, Wilhelm Furtwängler, Dimitri Mitropoulos, Zubin Mehta, von Karajan e Muti, la “divina” Maria Callas, Pietro Mascagni e Richard Strauss, Paul Hindemith e Bela Bartòk, Igor Stravinskij e Luigi Dallapiccola, Luigi Nono, Karlheinz Stockhausen e Luciano Berio quali interpreti delle loro stesse musiche. Al loro fianco, registi e scenografi d’eccezione quali Max Reinhardt e Gustav Gründgens, Luchino Visconti e Franco Zeffirelli, Luca Ronconi e Bob Wilson, Giorgio de Chirico e Oskar Kokoschka.
Negli ultimi anni il festival, ora commissariato, è stato tormentato da gravissimi problemi finanziari. Tra l’altro, gli organici sono stati rivisti, e ridotti. Questa 77esima edizione si propone di essere quella della rinascita. Ha un programma molto ricco (quattro opere di cui tre nuovi allestimenti e una in forma di concerto, balletto, sinfonica). Nel corso della manifestazione è stato inaugurato il nuovo teatro, Opera di Firenze, con attrezzature tecnico-scenografiche modernissime e sono state fornite anticipazioni sulla stagione autunnale- primaverile 2014-2015. In una serata di gala, il 10 maggio all’Opera di Firenze, costruita ai bordi del Parco delle Cascine, è stato proposto un programma in quattro parti: due atti di differenti opere (Otello di Verdi e Tosca di Puccini) e due balletti, rispettivamente di Ravel e Part. In questa nota, si da brevemente conto dei tre lavori di teatro in musica (la vocazione principale del Maggio) e si tracciano alcuni suggerimenti per il futuro.
Le tre opere principali
Il Tristan und Isolde di Richard Wagner ha inaugurato il festival. La produzione si è imposta per due aspetti d’interesse, la regia di Stefano Poda e la concertazione di Zubin Mehta. Poda, che cura anche scene, costumi e luci, e lavora principalmente all’estero (soprattutto in Austria), fornisce una lettura nuova del lavoro: un’ambientazione astratta e atemporale dove l’aktion (questo il titolo che Wagner diede ai tre atti in cui, però, di azione scenica in senso stretto c’è poco) è essenzialmente interiore: i due protagonisti si amano ma non si sfiorano e non perdono l’innocenza. La presenza (specialmente nel primo atto) di Tristano e Isotta bambini e all’inizio del terzo di mimi nudi ma castissimi sottolinea l’innocenza in scena e si giustappone all’eros in buca.
La scena unica, visivamente attraente, ricorda la pittura astratta giapponese. Torsten Kerl (Tristan), Lioba Braun (Isolde), Julia Rutigliano (Brängane) e Stephen Milling (Re Marco) vivono in mondo esclusivamente di sentimenti a cui si contrappone quello sanguigno, e violento, di Martin Gantner (Kurnewal) e Kurt Azesberger (Melotto). Un’interpretazione analoga, ma meno radicale, era stata proposta da Patrice Chéreau alla Scala nel 2007. Kerl è un tenore eroico dal timbro molto chiaro, mentre la Braun è un mezzo soprano che scende a registri da contralto; ciò fa apprezzare meglio che in altre edizioni il lungo duetto del secondo atto dove spesso vengono affiancati un tenore brunito e un soprano drammatico. Tra gli altri – tutti di buon livello – spicca il Re Marco di Stephen Milling nel lungo monologo del secondo atto, una pagina che in molte edizioni tende a sembrare lungo e monotono, ma a cui ha dato forza e drammaticità. Zubin Mehta, che proprio al Maggio Fiorentino aveva offerto un Tristan di alta qualità nel 1999, ha mutato profondamente approccio rispetto a tre lustri fa. Allora la sua concertazione aveva posto l’accento sui presagi novecenteschi di un cromatismo (specialmente il secondo atto) che apre la via alla scuola di Vienna e alla dodecafonia. Ora enfatizza, invece, il sentimentalismo post romantico, serrando i tempi e dando maggior risalto alle dissonanze, specialmente nel finale del primo atto.
L’ultimo spettacolo in scena al Teatro Comunale è stato una vera chicca: L’Amour des Trois Oranges di Sergej Prokofiev nell’edizione originale in francese raramente in scena in Italia. Tratta da un lavoro di Carlo Gozzi e composta per l’Opera di Chicago, dove debuttò nel 1921, è una favola futurista e dadaista su due temi di fondo: il processo di formazione di un giovane ipocondriaco e una critica spietata alle classi dirigenti che hanno portato l’Europa alla Grande Guerra, nonché una presa in giro del realismo socialista, del verismo, del post-wagnerismo e dello stesso melodramma. Prokofiev si considerava in concorrenza con Chaplin e i Fratelli Max: undici quadri rapidissimi con trenta personaggi in grado non solo di cantare e recitare ma anche di danzare e fare piroette in una successione di gag. Alla prima, il pubblico ha riso di cuore per oltre due ore.
Il regista sudafricano Alessandro Talevi ha colto bene i due filoni principali della favola. Giovane anche il direttore d’orchestra, Juraj Valcuha, con l’arduo compito di concertare una partitura per grande orchestra (dove su un tappeto sinfonico si inseriscono jazz, ritmo afro-cubano e melodie popolari russe) e tenere un buon equilibrio tra la buca e un palcoscenico con 26 solisti. Giovane gran parte del cast, in cui alcuni (per esempio Lois Félix nel ruolo di Truffaldino e Jonathan Boyd in quello del Principe) effettuano acrobazie mentre cantano.
Infine, nel terzo centenario della nascita di Christoph W. Gluck, Orfeo ed Euridice è fra le opere più rappresentate non tanto perché richiede un organico di proporzioni modeste (tre cantanti, un coro, alcuni ballerini e una orchestra ridotta all’osso) e, quindi, il suo allestimento può essere effettuato a costi contenuti, ma soprattutto perché nel 1762 la sua messa in scena a Vienna, in italiano, rappresentò una rivoluzione. Tutti i mezzi espressivi (parola, musica, danza, mimo) vennero integrati e posti al servizio della verità scenica, sostituendo i recitativi secchi con recitativi accompagnati e introducendo anche nuovi accordi. Una seconda edizione venne approntata dallo stesso Gluck in francese nel 1774 per i gusti parigini ed è quella rappresentata più di frequente.
A Firenze è stata messa in scena la versione originaria del 1762, ossia quella più raramente eseguita, che si potrà anche gustare al festival di Montepulciano a metà luglio. L’allestimento di Denis Krief situa la vicenda in un contesto contemporaneo: un amore tra giovani dove, però, la fiducia reciproca non è così totale come necessario. Il ravvedimento porta al lieto fine dopo ottanta minuti intensi. Le scene sono sobrie, ma efficaci. Ottima Anna Bonitatibus nel ruolo del protagonista, qualche piccola incertezza di Hélène Guilmette in quello della sua compagna. Di livello il coro della gente che commenta la vicenda. In un’ambientazione moderna risulta sensato ispirarsi al contemporaneo anche per le danze. Federico Maria Sardelli guida un ensemble quasi cameristico di orchestrali del Maggio Musicale. La produzione mostra come Gluck del 1762 vinca ai punti su quello del 1774.
Alcune considerazioni sul futuro
Le tre opere di cui si sono presentati i tratti essenziali hanno avuto un totale di quattro recite ciascuna e non sono parte di co-produzioni pre-organizzate. Ai Festival di Aix en Provence , Salisburgo e allo stesso ROF vengono presentate ‘prime’ di produzioni destinate a ‘circuitare’ in numerosi teatri (anche stranieri) al fine nono solo di ridurre costi di scene , costumi e regia ma anche i cachet unitari (per serata) degli artisti. Il Maggio sta facendo uno sforzo per contenere le spese, ma è difficile pensare che in una città di quattrocento mila abitanti si riesca ad alimentare il pubblico per la nuova Opera Firenze, per il delizioso Goldoni e utilizzare anche di tanto in tanto il glorioso La Pergola e – perché no? – il Verdi.
A mio avviso, per il Maggio (e il nuovo teatro, nonché gli altri disponibili) evitino di passare da crisi a crisi, occorre una strategia che può essere riassunta in quattro punti:
– il festival deve tornare alla sua vocazione originaria di ‘riscoperte’ da effettuare in collaborazione con altre manifestazioni analoghe (da quella di Beaune per l’opera barocca a quella di Innsbruck per l’opera antica,a quella di Halle per Hasse e Händel, al festival delle stelle delle notti bianche di San Pietroburgo per l’opera slava, e via discorrendo);
– la stagione deve diventare di semi-repertorio, come quella de La Fenice, al fine di attirare flussi di turisti in visita a Firenze ed articolata su serie di spettacoli (un trittico mozartiana, un trittico verdiano, un trittico pucciniano, un trittico rossiniano) per attirare coloro che si fermano alcuni giorni nella città del Giglio. Ciò comporta la graduale formazione di una compagnia stabile;
– la Toscana con un teatro di semi-repertorio e una compagnia stabile Firenze dovrebbe diventare il fulcro di una rete che incorpori anche i teatri di Livorno, Pisa e Lucca;
– è essenziali che le fondazioni di Firenze e Bologna coordino i loro cartelloni, se del caso scambiandosi spettacoli.
Giuseppe Pennisi
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