Rossini Opera Festival. Quando l’avanguardia fa impallidire Luca Ronconi e Mario Martone
Fino al 22 agosto è in corso a Pesaro la 35esima edizione del ROF, acronimo ormai entrato nell’uso comune per indicare il Rossini Opera Festival. Dove le nuove produzioni sono tre: quelle dei “mostri sacri” Mario Martone e Luca Ronconi, tutt’altro che entusiasmanti, e quella invece notevole di… un collettivo composto da un centinaio di persone.
Come ogni anno, al Rossini Opera Festival di Pesaro vengono presentate tre opere in forma scenica (Armida, Il Barbiere di Siviglia, Aureliano in Palmira), viene replicato (ormai da oltre quindici anni) l’allestimento de Il Viaggio a Reims di Emilio Sagiinterpretato dai giovani dell’Accademia Rossiniana, nonché concerti e un pizzico della musica sacra (La Petite Messe Solennelle nella versione originale per doppio pianoforte e armonium).
Sotto il profilo drammaturgico, in questa edizione l’avanguardia sbarca a Pesaro con Il Barbiere di Siviglia e riceve maggiori consensi di pubblico e di critica rispetto a mostri sacri come Luca Ronconi e Mario Martone, alla cui regia sono state commissionate le altre due nuove produzioni. In passato il ROF si era affidato a registi un tempo d’avanguardia, come Dario Fo; aveva anche contribuito a far conoscere a livello internazionale Damiano Michieletto e Davide Livermore, ma unicamente dopo che avevano avuto la volata in Italia.
Questa volta il festival si è rivolto non a un regista ma a un collettivo. Quasi per necessità. In effetti, venuti meno finanziamenti da sponsor privati, a ragione della crisi che ha colpito severamente industria e finanza nelle Marche, non potendo presentare Il Barbiere ancora una volta in versione da concerto, si era pensato a una versione semi-scenica che costasse pochissimo e fosse quasi un saggio di fine corso dell’Accademia delle Belle Arti di Urbino, affiancandola però con cantanti di rango, una buona orchestra e un maestro concertatore giovane ma già affermato. A poco a poco il progetto si è trasformato in un allestimento scenico vero e proprio. E di gran classe.
L’avanguardia ha spesso le tasche vuote ma la testa piena d’idee. E ha accettato la sfida, ben sapendo che in passato sia Luigi Squarzina (1992) che Luca Ronconi (2005) avevano presentato Il Barbiere – ambientandolo il primo nella sala d’anatomia dell’Archiginnasio dell’Università di Bologna e il secondo in una specie di prigione – in versioni da cui il pubblico era uscito annoiato. Un bel risultato per una delle quattro maggiori commedie in musica dell’Ottocento (le altre sono, a mio avviso, Le Nozze di Figaro di Mozart, I Maestri Cantori di Norimberga di Wagner e Falstaff di Verdi)…
All’edizione low cost, invece, il pubblico ha riso a crepapelle durante la prima dell’11 agosto, è scoppiato in ovazioni al calar del sipario e si parla già di tournée in Italia e all’estero. Hanno certamente contribuito la bravura del giovane maestro concertatore Giacomo Sagripanti, la qualità dell’orchestra del Teatro Comunale di Bologna e l’abilità dei giovani cantanti-attori (Chiara Amarù, Felicia Bongiovanni, Andrea Vincenzo Bonsignore, Paolo Bordogna, Alex Esposito, Juan Francisco Gatell, Florian Sempey).
L’orchestra è in buca come nei teatri tradizionali, ma l’azione scenica si svolge in tutto il teatro: palcoscenico, palchi, platea. I costumi sono ovviamente contemporanei, tranne quello dell’ufficiale, che al termine del primo atto entra in sala in uniforme napoleonica e su un cavallo impagliato di grandezza naturale. Limitatissima l’attrezzeria, e per gli elementi scenici ci si affida principalmente alla visual art. Chi è il regista? A Pesaro si sussurra che sia Francesco Calcagnini, docente di grafia all’Accademia Urbinate, ma l’interessato lo nega e sottolinea che si tratta di un lavoro di gruppo. Il programma di sala elenca un centinaio di persone tra i responsabili della progettazione di elementi scenici e “elementi di regia”, di video, di costumi, di pitture, sculture e grafica di scena, luci, realizzazione del grafico di Siviglia, realizzazione dei blog. E via discorrendo. Verosimilmente si è trattato di un vero sforzo collettivo per trovare idee (lo spettacolo è pieno di gag), addestrare i cantanti a una recitazione teatrale (a ritmi scoppiettanti), utilizzare tutti gli spazi del teatro. Un successo collettivo che ha superato alla grande gli esiti di Ronconi (alla prima della cui Armida c’è stato anche qualche fischio) e di Martone (il cui Aureliano è stato ascoltato da un pubblico sfinito e voglioso di correre al banchetto approntato per duecento invitati da Silvana Ratti della nota casa di alta moda).
Martone ha un’attenuante.Già nel 1813, quando debuttò alla Scala, Aureliano era “vecchio”: un’opera d’impianto metastasiano (ossia settecentesco) in cui uno dei protagonisti vocali è un castrato (sostituito in tempi recenti da un mezzosoprano). Il regista ne fa uno spettacolo molto pulito ed evita di scivolare in un film peplum. Ma l’azione scenica proprio non c’è. Vengono sfoggiate tre grandi voci (Micheal Spyres, Jessica Pratt e Lena Belkina) in un drammone storico di quattro ore da cui lo stesso Rossini ha attinto a man bassa per altri lavori.
Ne ha meno Ronconi, di attenuanti. Nel 1993, proprio al ROF, aveva ambientato l’ariostesca Armida in un’ottocentesca Legione Straniera; la riuscita era stata modesta.In questa produzione parte da un’idea buona: utilizzare l’“opera dei pupi” siciliana. La prima parte regge. Nella seconda l’idea è abbandonata: il balletto (che dovrebbe essere erotico) è trasformato in una battaglia tra uomini e donne, il palazzo sensuale di Armida in una scatola con fogliame marrone. L’eros (del 21enne Rossini pazzo per la Colbran, per la quale compose l’opera) dovrebbe essere la molla del tutto. Ma sembra di essere andati ai saldi di Ikea, che di eros non si interessa…
Giuseppe Pennisi
http://www.rossinioperafestival.it
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