King Arthur e Purcell. Secondo Motus
Prendi un monumento della musica tardo barocca e mettilo nelle mani di un giovane e brillante gruppo sperimentale italiano. Motus rilegge il “King Arthur” di Purcell, sciogliendo le trame degli intrighi politici e militari, puntando solo sulla storia d’amore tra Artù ed Emmeline. Funzionerà?
Può un giovane gruppo sperimentale riuscire in un’impresa che pochi, considerato l’enorme impegno produttivo che comporta, osano anche solo tentare? Questa è la domanda che pone l’allestimento di King Arthur , “semi-opera” di Henry Purcell su testo di John Dryden attesa dal 18 ottobre al Teatro Argentina di Roma. Dopo la prima del 16 settembre alla Sagra Malatestiana e le successive repliche al Teatro Rossini di Pesaro; prima delle altre date che, è presumibile, vedrà in Italia e all’estero.
Sotto il profilo strettamente tecnico non è la prima volta che il lavoro viene eseguito in forma scenica in Italia, dove si ricorda – recentemente – solo la versione scorciata portata a Palazzo Pitti nel 1996. In Europa l’unica versione integrale recente è quella co-prodotta da Covent Graden, nel 1995, per lo Châtelet di Parigi, con la regia di Graham Vick e in buca Les Arts Florissants, dirette da Sir William Christie. Si tratta infatti di un’impresa titanica: uno spettacolo di oltre cinque ore; una quarantina di attori, cantanti, danzatori e orchestrali specializzati nel barocco.
La prima rappresentazione assoluta del lavoro, nel 1691, ebbe un successo strepitoso e venne seguita da cento repliche. Anche per motivi politici e religiosi, non puramente artistici. Era infatti in corso all’epoca, in Gran Bretagna, una guerra di religione (e non solo) tra i seguaci di Giacomo II (che, cattolico, voleva riportare il trono di Londra alla Fede di Roma) ed i seguaci di Guglielmo d’Orange: sassone, protestante e di cultura ed ascendenza tedesca.
Nel testo, scritto nel 1684 dal poeta John Dryden (convertito al cattolicesimo), i personaggi commentano le loro azioni e si avventurano spesso in micidiali riflessioni sul teatro e il suo stesso farsi, sul rapporto con la critica e il pubblico. Nel 1690, mutato il regime politico in cui l’opera era stata commissionata, il drammaturgo chiese a Purcell di comporne le musiche. Artù per i Britanni e Oswald per i Sassoni, si specchiano in Merlino e Osmond, replicati a loro volta nei loro magici serventi, Philidel e Grimbald, perfetti equivalenti di Ariel e Calibano, in una vertigine di doppi.
La passione tra Arthur, spesso in preda a dubbi e assai disamorato della sua professione di conquistatore, e la non vedente principessa Emmeline, ha sullo sfondo il rumore assordante del conflitto, quello tra gli dei del paganesimo germanico ed il mondo classico e cristiano. In effetti, gli eventi del King Arthur conducono alla nascita di una Nazione in un momento politico convulso, in cui lo scrittore doveva rivisitare il proprio ruolo rispetto alla società e alla corte.
Sotto il profilo musicologico – avverte l’ensemble Sezione Aurea che ne ha curato l’esecuzione – King Arthur stimola oggi due riflessioni. La prima deriva dal genere – sperimentale in quanto semi-opera – come ibrida combinazione di recitazione, canto, danze, brani strumentali e macchine sceniche; la seconda è legata alla tradizione del testo musicale, della partitura o delle parti staccate. La partitura manoscritta originale non è sopravvissuta al tempo, ma gran parte di essa è rimasta in possesso del Dorset Garden Theatre, dove le cento repliche iniziali vennero seguite da riprese nei decenni successivi, per essere poi essere copiata, integrata ed in parte pubblicata nei primi anni del Settecento.
Curiosamente King Arthur viene di tanto in tanto rappresentato, in forma più o meno completa, all’interno di università americane, poiché fornisce l’opportunità di collaborare con le Schools of Music and Drama, perché la vocalità settecentesca si adatta a voci giovani e infine perché, da Excalibur in poi, le vicende medioevali hanno una buona presa sui giovani attori e sul giovane pubblico.
Nell’allestimento è affidato a Motus, gruppo creato ed animato da Daniela Nicolò e di stanza a Rimini, l’intero spettacolo è ridotto a circa un’ora a mezza. Viene eliminato il contesto storico-politico-religioso e trattato in via esclusiva l’amore del giovane Artù per Emmeline.
Circa due terzi della musica di Purcell viene eseguita, con perizia, dall’Ensemble Sezione Aurea: ottimo il controtenore Carlo Vistoli e di buon livello i soprani Luca Catrani e Yuliya Poleshshuk; dei versi di Dryden non resta che il 10% ed i quaranta personaggi sono ridotti a due: Glen Çaçi (Re Artù) e Silvia Calderoni (Emmeline). La drammaturgia (Luca Scalini), i video (Aqua Micans Group) e la regia (Enrico Casagrande e Daniela Nicolò) rendono efficacemente il clima selvaggio in cui si sviluppa la trama. Tuttavia, senza il contesto storico, King Arthur diventa essenzialmente una storia d’amore narrata con belle immagini ed un’elegante partitura musicale in cui, però, i versi delle arie sembrano avere poco a che fare con l’insieme della vicenda. In effetti, viene offerto un antipasto molto raffinato in attesa che una grande co-produzione internazionale riproponga in lavoro in una versione analoga a quella del 1691 (anche se ridotta per tenere conto delle esigenze del pubblico di oggi). Una prospettiva non certo imminente e complicata in Italia dalla esigenza di tradurre il testo in versi di Dryden: non si tratta di parti parlate come in un Sing Spiel ma del vero nocciolo del lavoro se interpretato come una lettura drammaturgica della nascita della Nazione Britannica.
Giuseppe Pennisi
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