L’ultimo Don Giovanni di Graham Vick
Della serie: quando anche un grande regista “toppa”. Graham Vick è a capo di una coproduzione inedita, ma il risultato è datato. Con una violenza misogina che ben poco c'entra con Mozart.
La pubblicità iniziale affermava che il pluridecorato Graham Vick avrebbe debuttato nel titolo con questa edizione del Da Ponte-Mozart Don Giovanni. Ci si è poi accorti che è alla sua quinta regia del lavoro. Ebbene, chi si può fregiare del titolo di Commander of British Empire e ha nel suo curriculum ben otto premi Abbiati (l’Oscar della critica musicale italiana) ha diritto di perdere una battaglia. A Como, il regista è stato accolto da fischi e proteste alla diurna domenicale. A Jesi i booh e i fischi sono partiti al calar del sipario dal loggione e dai palchi, anche se la platea ha risposto con applausi a orchestra, coro e solisti.
Eppure l’idea sembrava geniale: una “coproduzione” tra una decina di teatri, al fine di fare sinergia e ammortizzare i costi, merita di essere sottolineata positivamente. Due cast si alternano per una quarantina di repliche e con un’orchestra scarna ma di pregio. Ciò avrebbe permesso di ingaggiare uno dei registi più noti e acclamati del momento, e di farlo lavorare con un’équipe giovane, consentendo numerose prove. Sino al 13 dicembre l’edizione si vedrà in sette teatri italiani (circuito lombardo, circuito marchigiano, Reggio Emilia, Bolzano) e in primavera a Parma (forse) e in un paio di teatri francesi.
Don Giovanni non è un capolavoro assoluto come quelle Nozze di Figaro, di fronte a un buon allestimento del quale ci si inchina, quale che sia la chiave di lettura. È un lavoro bifronte in cui, sin dall’ouverture, si contrappone il mondo luciferino di Don Giovanni in re minore e quello in re maggiore perbenista di Donna Anna, Donna Elvira, Zerlina, Don Ottavio e Masetto. Accentuato dall’unità aristotelica del libretto, è un “long day’s journey towards the night” alla Eugene O’ Neill in cui il “grande seduttore” va in bianco verso la fine dell’esistenza terrena, tentando a più riprese, ma inutilmente, di finire sotto le lenzuola con tre differenti donne.
La dissolutezza è anche politica: la prevaricazione arrogante con una musica che annuncia il demoniaco dell’opera tedesca dell’inizio del XIX secolo (si pensi in particolare al Die Vampyr di Manrschner ). Gli viene contrapposto un mondo moralisteggiante dove vengono rievocate, con una punta di ironia, le “convenzioni” dell’opera italiana (arie, duetti, terzetti, quartetti, pezzi concertati) a volte travolgendoli, come nel “finale primo” che si svolge in tre luoghi differenti e dura circa mezz’ora.
Di recente, solo Lorenzo Amato, Sven Erich Bechtolf, Peter Brook, Pierluigi Pizzi, Gigi Proietti e Dmitri Tcherniakov (in ordine alfabetico) hanno trovato il giusto equilibrio in edizioni che pur erano molto differenti in termini di chiave interpretativa. Hanno, invece, completamente toppato pure registi esperti come Carsen, De Simone e Savary.
Il medesimo destino è toccato a Vick. Con lo scenografo Stuart Nunn ha ambientato il “dramma giocoso” (il genere a cui gli autori attribuiscono il lavoro ha pur sempre un significato) in una triste e squallida periferia dove tutti sono assetati di sesso (nei modi più vari: Don Giovanni fa sesso anche con Don Ottavio) e di violenza (specialmente nei confronti delle donne). Roba da Anni Ottanta del secolo scorso. Avevo visto nel 2003 una regia simile a Stoccolma, dove Stein Winge aveva ambientato l’ultima giornata del “dissoluto” in un ristorante high tech, presumibilmente, per fast food, ma anche per banchetti hippie e punk. Il clima era porno-soft sin dall’ouverture (dove si allude a una fellatio di una cameriera al Governatore) e proseguiva per il resto dell’opera. Non c’era, però, violenza, soprattutto violenza contro le donne (di cui invece Mozart, protofemminista, avrebbe esaltato la saggezza nell’opera successiva, Le Nozze di Figaro). Non c’era neanche il clima da ultimi lavori pasoliniani (Salò, il mai compiuto Petrolio) che poco si addice al significato di parabola di delitto e castigo che Mozart, ammesso all’epoca da poco a un circolo cattolico rigorosissimo seppur illuminista, aveva inteso dare al lavoro.
In breve, questa regia di Vick è non solo sbagliata ma anche vecchia: ho ricordato Winge a Stoccolma undici anni fa, ma già alla fine degli Anni Ottanta Peter Sellars aveva realizzato un Don Giovanni tutto in calore erotico ma privo di violenza, e soprattutto di violenza sulle donne. E tra eros e sesso di gruppo c’è differenza.
Dopo le sue ultime regie (con l’eccezione di un magnifico Ratto dal Serraglio a Roma), Vick sembra alle prese con complessi problemi personali che trasformano il rossiniano Mosé in un capo terrorista (Pesaro, 2012) e la wagneriana Valchiria in un dramma di barboni ossessionati da voluttà di sesso senza eros e di sangue (Palermo 2013).
La parte musicale dell’edizione non è priva di interesse. Si utilizza la “versione di Praga” (la prima delle due predisposte da Mozart) che termina con il coro di condanna al dissoluto finito all’Inferno. L’organico quindi è all’osso ma ha effetti stereofonici nell’ultima sezione. Bravo il maestro concertatore, il giovane José-Luis Gomez-Rios, nel tenere un equilibrio tra buca e palcoscenico e nell’alternare sonorità giocose e drammatiche. Tra i giovani cantanti, il gruppo maschile (da segnalare il Don Ottavio di Giovanni Sebastiano Sala) supera quello femminile, ma sono tutti di buon livello. Ottimo il coro, costretto a cantare nelle più varie posizioni orgiastiche, tali da diventare, nel “finale primo”, quasi ridicole.
Giuseppe Pennisi
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